Il 17 dicembre di 45 anni fa nasceva nostro figlio, dopo 9 mesi di attesa e di inenarrabili sofferenze.
Quando
nacque non mi preoccupai di ringraziare chi mi aveva fatto recapitare
quel dono in un modo così rocambolesco e sofferto. Ero fiera di avercela
fatta a conseguire l'ultimo traguardo che mi ero prefissata, dopo tanto
travaglio.
A ridosso del Natale, la meta pensavo di averla raggiunta, con qualche giorno d'anticipo.
Poi il travaglio, quello vero, è venuto, con la malattia.
Ho perso di vista quel dono negli anni che mi tennero lontana da casa alla ricerca di qualcuno o qualcosa che potesse guarirmi.
Lo riabbracciai quando aveva 5 anni e mi trovai davanti uno sconosciuto.
Da allora cercai tutte le strade per riconquistarne l'amore, ma il filo sembrava definitivamente spezzato.
Nella nostra latitanza genitoriale lo affidammo alla chiesa, perchè si prendesse cura di lui. lo avrebbe salvaguardato dai pericoli, mentre mia madre provvedeva ai suoi e ai nostri bisogni materiali.
Non
abbiamo preparato insieme nè presepi, nè alberi, nè dolci per il
Natale. Lui, insieme ai suoi amici scout, li preparava in chiesa e
faceva la veglia alla vigilia e cantava e pregava unito al branco,
accompagnato dalla chitarra, sua inseparabile compagna.
Noi,
soli in casa, aspettavamo che ritornasse, perchè la malattia m'impediva
di soddisfare anche la più elementare curiosità di vedere cosa faceva.
Poi l'amore trovato a 17 anni, in quel contesto di servizio, di gioco e di preghiera.
A giugno del 2001 si è sposato.
Oggi
questo figlio, a fatica riconquistato, affidandomi i suoi bambini,
mi dà l'opportunità di scoprire quanto è grande l'amore di Dio,
attraverso tutto ciò che un tempo davo per scontato.
Ai suoi figli ho scritto tante lettere, a lui una soltanto, in occasione del suo matrimonio.
Oggi,
giorno del suo compleanno, mi piacerebbe la rileggesse con me e con
voi, perchè insieme possiamo lodare e benedire il Signore che continua a
farci regali anche se non gli diciamo grazie.
Questa è la lettera
LA TUA STANZA
Franco,
manca poco e la tua stanza sarà vuota di vestiti, di scarpe, di fogli,
di libri, di dischetti e CD messi lì alla rinfusa, abiti stropicciati,
sparsi ovunque, fili aggrovigliati che spuntano e s’intrecciano e
s’insinuano fra le multiformi e variopinte scartoffie che sciabordano
dagli scaffali che non le contengono.
Quel
tuo voler fare le tante, troppe cose che il tempo ti strappa di mano,
quel frutto che vuoi cogliere subito, la tua voglia di bruciare le
tappe, ti portano a lasciare indifese le tracce di ciò che sei, di ciò
che cerchi, di ciò che comunque vuoi nascondere, senza riuscirci.
Franco,
la tua camera oggi parla di te, più forte, mentre pian piano togli di
mezzo ciò che è tuo, ciò che fino a ieri sembrava mio solo mio, perché
tu eri cosa mia, come i tuoi pensieri i tuoi desideri i tuoi sogni che
ti ostinavi a negarmi…tutto, tutto ciò che, essendo tuo, pensavo mi
appartenesse.
Ora
te le porti lontano le cose che non sono mai state mie, le strappi
dalla tua stanza stupita, dal mio cuore sconvolto da questo temporale di
maggio, le porti via senza ordine, senza niente buttare, perché
bisognerebbe fare una scelta ed è difficile, specie in questi momenti
convulsi che ti separano dal matrimonio.
Le cose, Franco, lo so, lo sai, non vanno lontano: da un armadio ad un altro armadio, guarda caso distante 10 metri…
O di più?
Ma il tuo cuore, Franco, quello dove lo porti?
Il
vuoto che lasci di te, del tuo disordine assurdo, dei tuoi silenzi, dei
tuoi nervosismi, delle tue attenzioni nascoste, dei tuoi gesti gentili
mischiati al fracasso di ciò che non volevi apparisse, della voglia di
dirmi, di dirci che ci volevi bene, che volevi ti amassimo come tu sei,
come ti sforzavi di essere senza riuscirci, mi sembra incolmabile.
I
tuoi diari, lasciati per caso, senza parere poggiati su un tavolo,
dimenticati in un angolo, erano lì ad aspettare che qualcuno li aprisse,
per capire e conoscere ciò che ti ostinavi a nascondere.
Per sbaglio ne ho aperto, un giorno lontano una pagina e vi ho trovata scritta una preghiera.
L’ho
letta perché era bella, perché era tua, perché non mi sembrava di
violare un segreto, visto che l’avevi lasciata lì ad aspettare che
finalmente mi accorgessi che c’eri, che il tuo cuore batteva, che avevi
trovato un compagno, un amico a cui confidare il tormento e la pena
dell’essere soli, un amico che non conoscevo.
Ora
quell’amico anch’io l’ho trovato, ora possiamo parlare con Lui e di Lui
senza riserve, senza che la vergogna e il pudore ci chiuda la bocca,
ora possiamo sentirci vicini, perché è Lui che ci porta lì dove non
sapevamo salire.
Non
siamo più soli, perché se l’uno l’altro perde di vista, Lui ci sente e
ci rimette in contatto, ricordandoci che l’amore non conosce distanze,
riempie i vuoti dell’anima, i vuoti delle stanze deserte, che non
rimangono mute, quando un figlio si sposa, quando una madre,
invecchiando, non può condividere le sue spensierate e giovani scelte.
Lui
è quello che, saldandoli, ricongiunge, i fili spezzati, è quello che
riempie di luce le stanze buie e gelate, riscaldandole con il suo dolce
tepore.
Oggi, Franco, guardando la tua stanza, a tutto questo ho pensato.
Se
non mi fossi fermata un momento, per scriverti dello strazio delle cose
portate lontano, non avrei potuto gioire del dono stupendo di cui tu
sei stato strumento: il Compagno, l’Amico con cui tu te ne vai, ma anche
quello che tu lasci qui dentro, perché in fondo ciò che conta è vedere
nella morte dei nostri pensieri la vita dei nuovi pensieri, che
sbocciano nel cuore irrigato dal pianto e purificato dall’aria, che
soffia leggera sulle cose trasformate da Dio.
1 commento:
Molto bello, Antonietta.
Ciao.
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