martedì 14 novembre 2006

5 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

 


Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta.



Canto: Cristo è risorto veramente (Risorto per amore 1)



Un caro e affettuoso saluto a tutti, amici. Dagli studi di Radio Speranza vi danno il benvenuto Antonietta e Gianni.

La scorsa volta ci siamo lasciati con l’immagine di una grande luce che irrompe nella storia, una luce che squarcia il buio e porta la speranza e la pace a tutti gli uomini amati dal Signore.

Siamo entrati nella terza settimana d’Avvento, un tempo dell’anno liturgico ricco di suggestioni, di attesa e di silenzio, un tempo che sembra aver rallentato la sua corsa e quasi si è fermato su quel presepe che 2000 anni fa fece da sfondo all’evento, il più grande evento della storia: l’incarnazione di un Dio che si è fatto tanto piccolo da poter essere contenuto nel grembo di una donna..

Insieme a lei siamo invitati a meditare sul grande mistero, accogliendo nel cuore l’annuncio dell’angelo, che ci invita a credere che, anche in noi, può ripetersi il miracolo di far germogliare e crescere il seme, gettato da Dio, e far sì che si sviluppi, per poterlo insieme a Maria contemplare nella grotta, la notte di Natale.

A questo tempo della fede si contrappone quello del mondo, in cui la frenesia del consumismo porta a fagocitare tutto quello che ci è posto dinanzi.

Il ritmo convulso di una civiltà che non riesce a fermarsi, civiltà ingorda e cieca ai bisogni reali dell’uomo, specie in questo periodo dell’anno, spinge a fare più che ad essere, con una forza alla quale non è facile contrapporsi.

Mentre tutti sono intenti ad acquistare doni che il più delle volte non soddisfano e non pagano, a progettare viaggi che li portino lontano dalle persone con cui tutti i giorni s’incontrano e si scontrano, o dagli obblighi di visite dovute a parenti dimenticati per tutto il resto dell’anno, il Natale cristiano ci invita a riflettere sul valore del dono di un Dio che non si è risparmiato per venirci a salvare.

Superando i confini dello spazio e del tempo infinito, è entrato nella nostra storia finita, nel nostro spazio angusto e limitato per venire in vacanza (se così si può dire) sulla terra, scegliendo non una spiaggia esclusiva dei mari tropicali, né un albergo a cinque stelle di una città ricca di attrazioni o di memorie, ma un paese piccolo e sconosciuto, una grotta dove di comodo c’era solo una mangiatoia fredda e dura, riscaldato dall’alito di due animali, un bue e un asino che non furono certo scelti per il prestigio che occupano nella scala dei valori umani..

Prima di venire, non si è premunito di doni acquistati nei negozi luccicanti e intriganti delle nostre città sontuosamente addobbate, che in questo periodo le usano tutte per carpire la nostra attenzione e svuotare il nostro portafoglio.

Non ha portato niente con sé che si possa riciclare o esporre, fosse anche un bell’incarto o un fiocco dorato per rendere più prestigioso e appetibile il dono.

Ha portato l’unica cosa che vale, se stesso, per donarsi tutto a noi, lasciandoci la libertà di accoglierlo o metterlo da parte, o peggio buttarlo nella spazzatura insieme con le carte e i fiocchi che hanno accompagnato i doni del mondo, quei doni che abbiamo comprato, abbacinati dalle luci delle strade e delle vetrine, luci di tutti i colori e di tutte le forme che contraddistinguono le nostre città, i nostri paesi in questo periodo di follia collettiva.



Queste cose ci siamo dette, io e Gianni mentre, a passo d’uomo, cercavamo di uscire fuori dalla città per godere di un po’ di pace sul colle che sua madre.gli ha lasciato in eredità.

Un’eredità che, più passa il tempo, più apprezziamo perché non c’è nulla che ci distolga dal panorama che vi si gode salendo lassù.

I monti, il mare tutto è straordinariamente dipinto dalla mano sapiente di un architetto sommo che ci ha fatto esclamare un giorno, non molto lontano, in cui ci rammaricavamo che non riuscivamo a costruirci una casa, che quella era la più bella villa del mondo, perché le pareti le ha fatte Dio.

A noi il compito di riempirle di buone intenzioni, di rendere confortevole e caldo il luogo dove doveva incarnarsi l’amore.

La casa, cantiere di santità è il titolo del convegno che da due anni si tiene a Rocca di Papa per operatori di pastorale familiare.

Ad aprile ci siamo andati anche noi, perché quella casa non costruita era il nostro chiodo fisso.

Ci piace condividere con voi ciò su cui siamo stati portati a riflettere a Rocca di Papa.

Gli stimoli del convegno sul tema: La casa cantiere di santità” sono stati molteplici e interessanti.

Ci sembra che il concetto, nelle sue accezioni reali e simboliche, sia un ottimo spunto per impostare percorsi formativi, finalizzati alla promozione della cultura della famiglia.

Una famiglia sempre più povera di case dove abitare, alla ricerca di chi o di cosa possa offrirle ciò di cui ha bisogno, uno spazio dove si coltivano piante in via d’estinzione, si allacciano legami che non si consumano, si tessono trame che non si scompongono, un luogo dove, nella ricerca dell’altro, l’uomo ritrova se stesso, dove, attraverso le relazioni intessute, si ricompone la sua frammentazione, la disgregazione a cui la società spesso lo costringe.

La casa dove si ricompone l’unità dell’essere uomo, dell’essere coppia, dell’essere famiglia, dell’essere popolo dei figli di Dio.

La casa, intesa come luogo dell’ascolto, del silenzio, della preghiera, della presenza di un Dio che si manifesta e cammina con noi, spazio di contemplazione e di adorazione, ma anche cantiere aperto a tutte le attività che servono per renderla stabile e salda, funzionale alle necessità di chi vi abita, aperta all’incontro e all’accoglienza, casa cantiere, dove le porte non sono blindate, dove le finestre sono aperte sul mondo, dove il pellegrino può poggiare il mantello e trovare calore e ristoro.

Il convegno propone una riflessione su quella che è la casa come ambiente naturale e indispensabile per la vita dell’uomo.

Le dimore degli uomini, attraverso i secoli, non hanno mai potuto prescindere dai condizionamenti naturali e culturali del tempo in cui si trovavano a vivere.

In un’era in cui i poveri non si possono sposare perché non trovano la casa e i ricchi si sbizzarriscono a costruirne di tutti i tipi con tutti i confort, case disanimate che aspettano solo l’applauso di spettatori occasionali che vi si ritrovano per far trionfare la vanità, ci chiediamo se sia cambiato qualcosa o non siamo scesi ancora più in basso.



Di quale casa ha bisogno l’uomo del nostro tempo? Chi deve accogliere, cosa deve contenere, la dimora dell’uomo che cerca l’unità di una vita vissuta disgregandosi attraverso le molteplici esperienze a cui la civiltà dei consumi lo chiama?

Se fosse un cane, diremmo che l’uomo ha bisogno di una cuccia e ci adopereremmo per costruirgliene una bella e confortevole, come anche se fosse un pappagallo, non ci sarebbe difficile costruirgli una gabbia quand’anche fosse d’oro.

Ma l’uomo ha bisogno di ben altro, anche se, a sentire la televisione o i giornali, sembrerebbe che i suoi bisogni siano belle donne, belle macchine, ricette per non invecchiare, cibo che non si prepara con la fatica, l’attenzione e l’amore di un tempo, quando il poco diventava molto nelle povere e sapienti mani delle nostre nonne, quando la sfida era invecchiare bene e con sapienza, quando il tempo non correva più in fretta dei sogni, quando la casa era riscaldata da veri camini di amore sofferto e condiviso.

Chi è l’uomo perché te ne curi, chi è l’uomo perché te ne ricordi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli di gloria e di onore lo hai coronato, tutto hai messo ai suoi piedi”.

Se l’uomo è così importante da suscitare tanta attenzione da parte di Chi ha costruito il mondo e tutto quanto contiene, sicuramente ha diritto a qualcosa di speciale.

La casa è da prendersi come immagine in tutte le sue accezioni spirituali e materiali:casa luogo dell’incontro con Dio, luogo dell’incontro con i fratelli attraverso i quali Dio si manifesta. La casa fatta di mattoni, quelli veri che servono per mettere su casa, famiglia, quella che si preoccupano di trovare gli sposi e di arredare, quando celebrano le nozze, fissa dimora con gli spazi divisi a seconda di ciò che è necessario, perché la vita circoli e si sviluppi.

La vita alla casa lo dà l’amore che è fatto di condivisione, di solidarietà, di patire con e per, di rapporto stretto con un Dio che tiene unite tutte le stanze, attraverso i fili del telefono, della luce, le condutture dell’acqua e del gas…

Stanze di uomini, in comunicazione tra loro attraverso ciò che Dio dispensa con abbondanza, se si tengono aperti, puliti i canali, non lasciandoli otturare o rompere dal desiderio di isolarsi, appartandosi e agendo per conto proprio.



Bella e suggestiva è l’immagine tratta dall’Antico Testamento, della casa tenda, come quella che si porta sulle spalle (come la croce), che si porta anche per gli altri, per i piccoli, i malati, gli anziani, ma che a sera si pianta per accogliere la famiglia , tenda che si dilata fino a non avere confini e ad abbracciare il mondo, pronta a ricevere, accogliere chiunque abbia bisogno.

La casa, cuore di un’umanità inquieta e sofferente, cuore sclerotizzato, duro, incapace di amare, di donarsi, di dilatarsi.

La casa cuore di pietra che diventa cuore di carne, è l’immagine consolatoria che comunica il Dio della tenda, il Dio con noi, che viaggia con noi, che si mostra , si manifesta lì dove c’è fede, dove c’è apertura a Lui, dove c’è povertà di spirito, desiderio di essere da Lui riempiti.

Il Dio della tenda è il Maestro, per ricostruire le nostre case traballanti, fondate sulla sabbia, case in cemento armato che conservano l’armatura , per difendere il proprio egoismo e difendersi da quello altrui, case che hanno perso il cemento per tenere uniti i mattoni inerti che si staccano e rendono invivibile uno spazio sforacchiato, aperto a tutte le intemperie.

La casa dell’Antico Testamento è il luogo in cui Dio abita, dove l’uomo può abitare, perché la si porta dietro, sulle spalle, nel cuore, perché è aperta alle relazioni, al dialogo, aperta allo Spirito.

La casa di carne è quella che più di ogni altra noi siamo chiamati a costruire, quella che in Cristo Gesù si realizza, Gesù tempio, casa di carne, che si fa spezzare ogni giorno sopra gli altari dal sacerdote, che si fa pane per spegnere la fame di tutti gli affamati del mondo.

Rispondere alla domanda su chi è l’uomo porta a progettare la casa dove possa abitare, una casa dove Dio dimora perché egli possa dimorare in Dio.

La casa concepita non come fine, ma mezzo attraverso il quale il progetto degli uomini si trasforma in progetto di Dio, attraverso cui una casa di uomini diventa parte di Lui, parte della Sua casa, del Suo Corpo Mistico, la Chiesa.

Il fare, l’operare nel cantiere sono la conseguenza di questa presa di coscienza: quella di stabilire una dimora per l’uomo, un luogo dove l’uomo si realizzi attraverso le relazioni, la relazione che intercorre tra i suoi membri.

Dio è relazione, è comunione, è famiglia, come ha detto giustamente il Papa.

Nello sforzo di rendere visibile il Dio relazione d’amore, il Dio uno e trino, si costruisce la casa che può subire mille traslochi senza perdere mai la sua identità.

In una casa siffatta tutto appartiene a Dio e quindi vi prende stabile dimora la santità.

Partire dall’uomo primo Adamo, e tornare a Cristo, nuovo Adamo è l’unica strada per sapere di quale casa egli ha bisogno.



Canto: Dio dimora nel suo tempio (Nelle tue mani 8)



Quest’anno insieme con le quattro candele, simbolo del tempo che ci separa dalla nascita di Gesù, abbiamo preparato anche tutto l’occorrente per fare il presepe, in anticipo, perché Giovanni con noi potesse costruire la casa giusta per accogliere il Bambinello.

Quando dieci anni fa ci fu recapitato un piccolo presepe messicano, non pensavamo che quello era il modo discreto di Dio per farsi spazio nella nostra casa, che aveva dimenticato come si celebrava il Natale..

Natale 2002

Quando Franca, un Natale di tanti anni fa, mi regalò il minuscolo presepe messicano di ceramica bianca e blu, contenuto in una piccola scatola dipinta con tanti alberelli e stelle luccicanti, non pensai che quello era un regalo del Signore, non pensai che mi voleva parlare come poi ha fatto, attraverso quel dono inusuale e stravagante che mi veniva da una non credente un pochino snob e tanto ricca.

Ho pensato che aveva avuto buon gusto nello scegliere e l’ho invidiata per la possibilità di camminare alla ricerca di cose straordinarie e di comperare ciò che voleva con i soldi che aveva. Franca era uscita fuori dagli schemi con quel presepe, come sempre si era distinta con i regali acquistati nei negozi di lusso.

Io la ricambiavo, rompendomi la testa e le braccia, con marmellate e sottaceti e conserve fatte con le mie mani.

Le ho sempre regalato cose che lei non poteva comprarsi con i soldi e anche quell’anno, soddisfatta, ricambiai il dono in tal modo, commiserandola per ciò che non sapeva fare, esaltandomi per ciò che io riuscivo a fare.

Franca, quel piccolo presepe sicuramente non ci aveva messo molto a trovarlo, mi accorsi l’anno dopo, che avevo ricominciato a girare, che i negozi ne erano pieni, ma, alla distanza, il regalo speciale che non si compra, non io, ma lei l’ha fatto.

Sì perché il presepe ha cominciato a parlare a trasmettermi pace, calore, senso da dare ad un Natale che ogni anno diventava una conta di morti, un’angoscia per chi non ritorna, per gli anni che passano, per i pesi che si accumulano sopra le spalle.

Il Natale sembrava sempre più una festa di campane a martello, con i sordi rintocchi che risuonavano nelle stanze gelide e mute.

La festa della resa dei conti, perché sempre meno erano quelli che si sedevano intorno al tavolo, la vigilia e il giorno dopo e tutte le feste.

Sempre ogni anno la verifica dei vivi e dei morti, dei sani e dei malati.

Sempre qualcuno mancava all’appello e non c’era chi venisse ad occuparne il posto.

Prima mia sorella, poi mia madre e mio padre e poi suo fratello, che se n’è andato a luglio del ’99, dopo aver festeggiato a casa nostra per la prima volta il Natale, dopo anni di lontananza e di incomprensioni.

Bisognava proprio che stesse male perché ci accorgessimo del calore di una famiglia raccolta intorno alla mensa apparecchiata accanto al presepe..

Ma Antonietta, mentre facevo le foto, poi me l’ha confessato, pensava che erano le ultime, consapevole che era un malato perso e che non c’era nessuna speranza che vivesse fino all’appello successivo.

Pensieri di morte che hanno cominciato a germogliare sotto l’albero, che avevamo dimenticato non solo d’innaffiare, ma anche di avere e che infestarono tutto il terreno fino a rischiare che rimanesse soffocato per sempre.

A questo pensavamo mentre ci facevamo portare dai ricordi che ci legavano a Bologna, la città che la settimana scorsa in gran fretta abbiamo dovuto raggiungere, per rendere l’estremo saluto allo zio, scomparso all’improvviso, che l’accolse nella sua casa quando decise di andare all’università, che altrimenti non avrebbe potuto frequentare.

A Bologna Antonietta e io ci siamo conosciuti, a Bologna ci siamo frequentati, a Bologna è sbocciato quel sentimento che ci portò a dirci di sì per sempre.

Pensavamo che, conclusi gli studi, non ci saremmo più tornati e invece in ambulanza o in macchina l’A 14 l’abbiamo consumata per raggiungere lì un pezzetto di scienza, per trovare il rimedio alla malattia di Antonietta che senza Cristo aveva incontrato la croce.

Ad accoglierci era sempre lo stesso zio che collezionava crocifissi per metterli sopra il velluto, staccandoli dalla croce dove erano stati inchiodati.





A luglio di quest’anno è morto mio padre e stranamente non ce ne siamo ricordati quando abbiamo passato in rassegna la lista dei nostri defunti.. Ma non c’è da meravigliarsi, perché nella nostra casa è venuto ad abitare il Signore.

Quest’anno, a Natale, attorno alla tavola, accanto al presepe, sarà una conta di vivi, a cominciare da Gesù che dal crocifisso continua a donarci la vita, attraverso tutti i doni che ci sta insegnando ad aprire.



Canto: Cristo è risorto veramente (Risorto per amore 1)


6 dicembre 2004

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