martedì 5 gennaio 2010

Anniversario




La resa
L’estate, che era nel pieno, se non era riuscita da sempre a farmi risorgere, come avrebbe potuto quell’anno cambiare il copione? Ingloriosamente e dolorosamente sui giorni si avvolsero i giorni e luglio e agosto finirono.
Ma a settembre non c’era ad attendermi l’ansia di ricominciare un lavoro amato sopra ogni altra cosa, ma le vacanze obbligate, non chieste, temute, imposte da chi non sapeva che farsene di una che faceva così tanta fatica a spostarsi.
Il primo settembre del 1999 andai ufficialmente in pensione, non più obbligata a rispondere se e quando sarei guarita.
Potevo finalmente permettermi di andare dove volevo a curarmi, senza contare minuti, ore e chilometri. Finalmente libera di ammalarmi o guarire senza rendere conto a nessuno. Del tempo che mi accinsi a percorrere, partendo da quel momento, non ricordo gioia o dolore, ma solo la sensazione di trovarmi in un paese straniero, sempre più estranea agli altri e a me stessa, cercando il foglio smarrito di ciò che dovevo dire, fare o pensare. Ma che senso aveva continuare a declamare la parte, se tutti se n’erano andati?
Il tempo da amico divenne nemico, perché amplificava i secondi, i minuti, le ore implacabilmente accompagnati da un silenzio spettrale nel deserto di un’anima che senza meta, brancolando, continuava a cercare. Sempre più strette, le maglie della prigione aderivano alla mia pelle, imbrigliando i movimenti, impedendo agli occhi di vedere fuori il sole, i colori, la vita che aveva cessato di appartenermi.
Chi ero io, dove andavo, da dove venivo, di cosa avevo bisogno, a chi poteva importare, ora che lo spettacolo era finito? Quell’ultima parte l’avevo recitata in modo così magistrale che avevano tutti finito per crederci che ero di ferro, che niente e nessuno poteva piegarmi.
Anche io avevo finito per crederci e non mi riusciva di recitare una parte che nessuno mi aveva insegnato. L’indipendenza, perseguita per anni con forza, con tenacia, con fede, sempre più era smentita dai fatti, da ciò che inspiegabilmente mi continuava a succedere, da tutte le malattie invalidanti che sempre mi riproponevano il dramma della sua negazione. Di questa avevo fatto un valore assoluto, da quando dovetti fare a meno per forza, a poco più di un anno di vita, del caldo e sicuro rifugio di braccia che troppo presto avevano allentato la presa.
Da quel momento avevo imparato a fare da sola anche quello che nessuno mi aveva insegnato, convinta dai fatti che non avrei mai trovato qualcuno disposto a fermarsi e a chiedersi perché avevo smesso di ridere, perché avevo un solco in mezzo alla fronte, perché il mio pianto era più forte di quello di tanti altri bambini, perché avevo, una volta ricongiunta a mia madre, cominciato a , mangiare a tal punto da vergognarmene io e i miei familiari…. perché quell’andare sempre più curvo.
Arrangiati!… arrangiati!… arrangiati! A queste le parole per tutto il corso della mia vita avevo obbedito, facendole mie, tanto da diventare maestra in quell’arte. Ma era giunto il momento della resa dei conti, il momento in cui tutti i nodi vengono al pettine.
Quando non c’è più nulla per cui valga la pena di arrangiarsi, quando la tua stessa vita vale meno che niente, quando a nessuno interessa quell’arte che hai imparato a memoria, perché non serve a rispondere ai loro più segreti bisogni, quando in mano non ti rimane che un pugno di sogni svaniti nel nulla, le tue delusioni cocenti, la tua impotenza per anni negata e mascherata, la tua dipendenza pesante quanto un macigno e mai accettata, è allora che si piegarono le mie ginocchia.
Era il 5 gennaio del 2000.
....


Approdata finalmente nel porto, potevo guardare il mare in tempesta e senza paura osservare le onde che si alzavano e si inabissavano, senza che un brivido freddo impietrisse le membra ed il cuore. Potevo nuotare nel mare calmo della mia chiesa, incurante che l’acqua bagnasse i capelli, che la testa non rimanesse sospesa sopra la vita, che sola fluiva all’interno di quell’oceano che mi aveva scoperto le sue meraviglie. Quel Dio per tanti anni cercato nei libri, nelle dispute dotte, nella profondità dei cieli infiniti, l’avevo trovato nel mio limite, finalmente accettato, nel mio consapevole bisogno d’aiuto.

Tratto da "Il Gioco dell'oca"

3 commenti:

paracchini ha detto...

 ohh Antonietta, un abbraccio così

danielafenice ha detto...

L'incontro con il Signore avviene proprio quando riconosciamo i nostri limiti.
Ed è un miracolo che si avvera ogni giorno...se lo vuoi ...!




Un abbraccio grande
Dani

laprimaparola ha detto...

@paracchini e danielafenice. E' proprio vero che la vita è racchiusa in un abbraccio, nel muto messaggio di chi dice, scoprendo il petto indifeso, "Io mi fido di te".