mercoledì 6 giugno 2007

Te ne sei andato


Te ne sei andato in un pomeriggio assolato, solo, come da un pezzo eri abituato a stare, alla ricerca di qualcuno che si accorgesse di te.
Eri stato il nostro giullare, lo svago, il riso, l'abbandono a sentimenti dimenticati, di sanità, di bellezza, di grazia, di forza e di potenza, racchiusi nelle tue gambe esili ma vigorose, in quel tuo fisico asciutto e scattante, in quel tuo pelo sempre lucido, sintomo di buona salute.
A differenza di tua nonna, la cagna che ti precedette in questa casa, tu ti muovevi e ti davi da fare nel dare spettacolo, per divertirci, per consolarci, per farci dimenticare i nostri problemi.
In te vedevamo realizzate le aspettative di agilità e di benessere, che ci avevano accompagnato, quando ancora la vita ci sorrideva.
Ti muovevi nell'aria come fossi una piuma, avvolgendoti su te stesso e ricadendo sempre in modo elegante. Mai stanco, sempre pronto a rispondere ad una provocazione, un desiderio, un invito per farci sorridere e dimenticare.
Dieci anni sei vissuto con noi: i più tragici, i più terribili. A te abbiamo affidato il compito di consolarci, coccolarci, amarci, a te quello di dare un senso alla nostre lunghe giornate dolorose, senza senso, assurde, senza mai ribellarti, senza nulla pretendere.
A volte ci dimenticavamo perfino di darti da bere, presi dai nostri problemi.
Ma tu, come seconda casa, avevi scelto il giardino e poi il quartiere, dove c'era sempre qualcuno che ti chiamava per darti un biscotto, o lanciava una pietra per vederti, agile e snello, fendere l'aria veloce per prenderla e riportarla nella sua mano.
Così te ne sei andato, sabato 31 maggio, come al solito, vagabondo, ad elemosinare un sorriso, una carezza, un biscotto, una pacca sul pelo.
Da quando era nato Giovanni, avevi smesso di essere il nostro giullare, perché c'era lui, ormai, a scacciare i brutti pensieri.
E noi lo dovevamo difendere da te, dalle pulci, dalle zecche, dalla polvere, ma specialmente dalla gelosia verso chi ti aveva preso il posto nel nostro cuore.
Eppure eri zio Byron nei sogni e nelle intenzioni di Franco, quando cominciò a pensare a suo figlio. Ma Giovanni voleva spingere, premere il bottone nascosto in mezzo alla faccia, sul naso, un bottone nero, di carne, perché tu facessi rumore, emettessi un suono, come tutti i suoi giocattoli a pile.
Il gioco si era fatto pericoloso, e io avevo paura, un paura grande, perché avevi smesso di obbedirmi, quando non ti rassegnavi a stare lontano e rimanevi incollato alle gambe, quando di notte, nonostante il divieto, ti stendevi sul tappeto ai piedi del letto e io v'inciampavo, quando mi svegliavi per scendere sotto, smanioso per una cagnetta in calore.
Quando Sara, la madre di tuo padre, morì, decidemmo che mai più nessun cane sarebbe entrato nella nostra casa. Troppo dolore, troppa fatica.
Poi i giorni divennero lunghi, più lunghi, senza un caldo pelo da accarezzare, qualcuno che mi facesse le feste, pure se non mi riusciva di camminare ed ero incollata ad un letto o ad una poltrona.
Ti scelsi come amico, per vedere se l' handicap dipendeva dalla motivazione.
Tu eri la motivazione.
Il portarti a spasso avrebbe ridato un senso ai miei sforzi di stare in piedi e tornare normale.
Ripenso alla follia di volerti cambiare il nome, per sentirti ancora più mio e distinguermi dai tuoi precedenti padroni, che ti avevano chiamato Byron, un personaggio importante, un lord... e tale eri per loro... la follia di competere con due bimbi, che ti avevano voluto bene, vigilando sui tuoi sonni, portandoti in braccio, per tutto il tempo che eri stato malato! E ne avevi bisogno di coccole da quando, volasti via dal balcone, e ti fratturasti una zampa, a poco più di un mese di vita!
Ma tua madre faceva quattro o cinque figli alla volta, e qualcuno doveva pur sloggiare, per fare posto, quando nascevano.
Ricordo quei tre giorni di silenzio, senza mangiare, accucciato in un angolo, con gli occhi tristi, improvvisamente senza amici e senza padrone, con una che pretendeva di portarti a spasso al guinzaglio, seduta dentro la macchina.
La motivazione non ha funzionato, nè per me, che non ho imparato a camminare, nè per te che non hai mai imparato ad andare a guinzaglio, come un cane educato e perbene.
Eri un attaccabrighe con tutti, non disposto a cedere il passo a nessuno. Per questo smettemmo di portarti con noi e ti relegammo in giardino.
Lì potevi correre e abbaiare a tuo piacimento, senza crearci problemi, se non quello di chiamarti a casa per i pasti e per venire a dormire.
Quando ti presentavi alla porta, con la zampa sospesa nell'aria, capivamo che era successo di nuovo e che quella brutta frattura aveva lasciato un segno indelebile, che invano cercavi di cancellare.
E noi ne eravamo convinti, salvo poi ricrederci, ogni volta che ti vedevamo ridotto a quel modo.
Spesso ho pensato che eri come me, malato, ma pieno di voglia di vivere e di dimenticare quello che ti era successo e che ti aveva marcato per tutta la vita.
Eri il mio sosia, il mio alter ego, e pensai a suo tempo che saremmo morti insieme, io e te, perché troppo ci somigliavamo.
Te ne sei andato in un caldo pomeriggio di maggio, ma non in silenzio, come fanno le nuvole quando il sole si alza al mattino.
Una macchina ti ha tagliato la strada.
E tu hai guaito, hai pianto, hai chiamato i nostri nomi, uno a uno, mentre eravamo lontani, e la gente si prendeva cura di te.
Te ne sei andato, non perché tu lo volessi, ma perché noi abbiamo dovuto decidere di non soffrire e di non farti soffrire.
Ma ora mi manchi. Non ho pianto quando ti portavamo in campagna per seppellirti, ma quando ho visto Franco piangere per la rabbia, mentre dalle sue mani stavi prendendo acqua e carezze, prima della puntura fatale.
Non potevi morire di colpo? Sicuramente i tuoi occhi non ci avrebbero ricordato le nostre inadempienze, non ci avrebbero messo di fronte la responsabilità di averti mandato a morire.
Oggi, a distanza di tempo, penso a te e ricaccio dentro le lacrime che vorrebbero a fiotti uscire, perché sarebbe ora che mi decidessi a capire che si può, anzi si deve piangere, se ti viene a mancare un amico, pur se un cane, pur se lo hai tradito.
Sei stato seppellito sul colle, vicino al frutteto, chiuso in un sacco di plastica colorata, il sacco che custodiva i giochi di Giovanni.
Che strano destino il tuo:trattato come un giocattolo, messo via come un giocattolo.
Tu, Byron, hai scavato un solco nella mia storia, nella storia di ognuno di noi. Un solco su cui vorrei poter incidere il suono della tua voce, perché non vorrei dimenticare quanto mi hai dato e quanto poco da me hai ricevuto.
Ti chiedo perdono, piccolo e tenero amico, e spero un giorno di potertelo dire, quando ci incontreremo di nuovo e insieme potremo camminare senza handicap, finalmente felici, per le strade luminose del cielo.


Antonietta

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