lunedì 5 marzo 2007

23 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta


Un affettuoso saluto, amici, dagli studi di Radio Speranza, un’emittente che ce la sta mettendo tutta per comunicare la speranza, per rendere ragione della speranza, che si sforza di portare ad ognuno di voi, di noi, il fondamento di ciò che crediamo, di ciò che aspettiamo, di ciò che ogni giorno ci è dato come anticipazione della promessa.

Gesù, il Risorto cammina con noi, è entrato nella storia, non quella astratta scritta sui libri, quella che ha l’occhio rivolto solo ai grandi e ai potenti di questa terra, a quelli che sembrano tessere il filo del nostro destino di uomini.

Il Signore del tempo si è fatto piccolo, umile, uno di noi, per poterci incontrare e aiutare nelle nostre anonime storie di uomini per niente speciali, per condividere con noi la pena, l’affanno, la difficoltà del procedere, per tenere alta la speranza che un giorno lo vedremo risplendere alla destra del Padre, diventato anche nostro, grazie a quel pane spezzato, a quel sangue donato per accoglierci nella grande famiglia dei figli di Dio.

Lui, con le mani che ancora portano i segni del rifiuto e dell’ingiustizia, continua a benedire chi lo perseguita, con i piedi lacerati dai chiodi, continua a percorrere le strade del mondo, Dio mendicante che chiede, che supplica che implora la nostra attenzione a che gli prestiamo ascolto perché ha tante cose da dirci.

Come non rimanere folgorati da tanta attenzione, come non rimanere stupiti attratti da questo Gesù, che si lascia crocifiggere ogni momento dall’uomo che lo rinnega, che non lo vuole sentire, che non sa che farsene di un Dio che va controcorrente, che, nonostante tutto, continua a farsi pane spezzato per tutti gli affamati del mondo.

Un Dio che si abbassa, depone le vesti e si mette il grembiule per continuare a lavarci quei piedi di cui non vediamo lo sporco tanto distano dal nostro sguardo e dal nostro naso, non può non risorgere scendendo ancora, negli Inferi, il luogo più distante dal Padre, il luogo dove erano e sono ad aspettarlo tutti quelli a cui non è stata annunciata la buona novella.

Un Dio che risorge scendendo, non salendo, per debellare per sempre la morte, questo è il grande mistero di consolazione che le icone della chiesa orientale propongono.

Quando padre Raniero Cantalamessa in un omelia lo ha ricordato, ho avuto un brivido, perché l’immagine di un Dio che scende a liberare l’uomo dalle catene di un destino senza speranza mi rassicura più di tante in cui lo si rappresenta mentre sale.Un Dio che scende per vincere la morte, per portare luce dove sono le tenebre, per liberare i prigionieri dalle maglie della schiavitù del peccato è veramente un Dio potente, perché ci viene incontro, perché ci tende il braccio, perché ci invita ad aggrapparci a lui la roccia che non crolla, la verità che non delude, la parola che salva.

Tutto questo ho imparato a leggere nel suono delle campane quelle che non avevano smesso di suonare per annunciare la resurrezione del Signore, mentre io dormivo, la mezzanotte del sabato santo.

Ma era necessario che mi svegliassero quelle a martello, quelle che Dio non tiene legate, perché il loro suono deve scuoterci dal torpore, dall’abitudine di dare tutto per scontato, dalla convinzione che a morire sono solo gli altri, che a patire c’è sempre tempo, quelle che ci chiamano a riflettere su ciò che finisce, su ciò a cui non possiamo porre rimedio, quelle che ci portano a sollevare lo sguardo e a chiedere aiuto.

Gesù con pazienza e con determinazione mi ha portato a percorrere la strada del calvario aprendomi le orecchie per farmi ascoltare i sordi e tristi rintocchi di quelle campane che mi parlavano di morte, per portarmi poi nel giardino dove si è fatto riconoscere, chiamandomi per nome, davanti al sepolcro scoperchiato e vuoto.

Per incontrare il risorto, per parlare con lui e riconoscerlo bisogna morire, per godere della resurrezione con lui bisogna salire sulla croce: parole di consolazione e di speranza, ma anche parole pesanti, difficili da accettare e vivere senza ribellarsi o smarrirsi.

Gesù continua a parlare ai nostri cuori, attraverso gli innumerevoli segni di cui è piena la nostra storia, segni che solo orecchie vigili e attente, occhi purificati dal pianto, il cuore aperto all’amore, sono in grado di cogliere e utilizzare per correggere la rotta per godere della consolazione che l’Emanuele, il Dio con noi non è un utopia, ma una realtà viva e presente che non permette nulla che non sia per il nostro bene..

La volta scorsa, rileggendo con voi le pagine del libro relative agli anni 1997 98 in cui ben due incidenti stradali, a distanza di otto mesi, avevano rimesso in discussione tutto il lavoro dei medici che mi tenevano in cura, mi sono sorpresa per le parole usate in quella circostanza

“Se non ancora mi ero svegliata, se non ancora avevo preso coscienza che l’ora era giunta, sempre più forte la campana a martello mandò i suoi rintocchi”

Erano campane che da quel momento non mi permisero più di addormentarmi, perché dovevo bere fino in fondo il calice amaro del fallimento dell’impotenza e del limite, perché mi rivolgessi a Chi quel calice lo trasformasse in occasione di incontro, di resurrezione e di vita.

Il senso? – La morte

Che anno il ‘98! ....mi gira la testa a pensarci.

Quel vagare alla cieca, quel dubbio sempre crescente su ciò che fosse giusto, su ciò che non lo era, sull’esito di quell’andare a tentoni, spiando, guardando, studiando tutto quello che era possibile per trovare il bandolo della matassa.

Che intreccio di strade, di nomi, di cure, di luoghi, di errori, di conferme che mai, mai più potevi uscire dal fosso, dal baratro enorme che pian piano si andava scavando sotto i tuoi piedi.

Il baratro fu così grande che mancò poco che vi annegassi, in quell’anno dove tutto accadde, dove tutti i nodi vennero al pettine, dove la sconfitta e la morte sembrarono avere la meglio.

La grande abbuffata, la sbornia di medici e di medicine, di rimedi antichi e moderni, non l’avevo ancora smaltita, quando, a dicembre, un’altra, questa volta più forte chiamata, mi scosse dall’ingorgo dei pensieri ormai triti e aggrovigliati in se stessi.

Atlante

La vita corre veloce senza che ce ne rendiamo conto

Abbarbicati alle nostre idee, alle teorie inattaccabili da qualsiasi argomentazione, convinti di aver toccato il fondo del mistero, difficilmente ci fermiamo per rimettere in discussione ciò che dentro di noi si è sclerotizzato, convinti che ci siamo fermati già troppo tempo a pensare, riflettere, dedurre.

All’immagine di Prometeo a cui l’aquila di Giove di notte mangiava il fegato, che ogni giorno ricresceva più rosso che mai, a quella di Sisifo condannato in eterno a spingere un masso che ripiombava giù proprio quando era prossimo alla vetta, si era associata e sempre più si sovrapponeva, negli ultimi tempi, quella di Atlante, che sostiene sulle spalle tutto il peso del mondo.

La stanchezza pian piano aveva preso il sopravvento e sempre più spesso mi trovavo a chiedermi che senso avesse quella sfida estrema.

Come un titano continuavo a sentirmi fuori dalla mischia, in una solitudine dolorosa e sempre più angosciante.

L’idea della morte come liberazione e termine delle umane sofferenze mi aveva spesso aiutato a sopportare notti insonni passate a difendermi dagli attacchi inclementi di un corpo impazzito.

Ma non sempre era possibile, anzi sempre più spesso accarezzavo l’idea di una morte dolce, che mi avrebbe liberata per sempre da quel maledetto “dover essere”,

Io che non mi ero mai data per vinta, nemmeno dopo quell’anno da incubo, io che pensavo di poter sconfiggere la morte, quella mia, desiderandola, accarezzandola come premio alla fatica del vivere, mi ritrovai smarrita, sconcertata a pensare a quella, prossima, di mio fratello.

Eppure non era di fatto morto nei miei pensieri, nella mia vita, lui che ne aveva scelta un’altra con amici più spensierati con cui condividere pranzi, balli, gite, all’aperto?

Non senza un pizzico d’invidia venivo a sapere da mamma che era sempre fuori casa, anche quando non lavorava. Non aveva mai avuto un minuto per me, nei lunghissimi anni della mia malattia.

Non mi aveva più guardato in faccia, inspiegabilmente.

Mi ero rassegnata a non avere un fratello, anche se non avevo perso la speranza di riconquistarlo.

Così quando la rabbia per il suo disinvolto comportamento nei confronti di papà, in pericolo di vita, esplodeva in tutta la sua forza distruttiva: LA NOTIZIA.

Non era vero, non poteva essere vero.

Mi sembrava che una nemesi irrazionale e cieca si fosse abbattuta su di lui, che sveniva davanti ad una semplice iniezione, che si rifiutava di mettere piede in ospedale, con la scusa che si sentiva male, lui che non era mai andato a visitare un ammalato, che non si era mai sforzato di capire chi era in difficoltà: proprio lui si trovava ad affrontare la prova più terribile.

Un male incurabile lo aveva colpito, attaccandosi alle parti vitali.

"Adenocarcinoma polmonare con lesioni multiple intracerebrali secondarie", questa la diagnosi dei medici consultati freneticamente da me, che volevo sapere, conoscere, per combattere quell’estrema battaglia, dopo che le indagini di rito avevano messo a nudo la terribile verità.

Non siamo niente, non siamo nessuno, e la lotta non sempre paga.

Ero pronta ad accettare la mia morte, ma non quella sua.

Sola, ad aspettare il precipitare degli eventi, la mia vita si era fermata in un’attesa immobile ed attonita.

Eppure ero fuori dal cerchio della vita già da tempo, anche se sogni e speranze non erano spenti del tutto.

Non mi volevo arrendere, non volevo buttare la spugna, nonostante i ripetuti traumi alla colonna vertebrale mi riproponevano ogni giorno il terribile interrogativo. Continuare o fermarmi?

Quante volte, dopo una notte insonne, mi ero chiesta se sarei stata capace anche solo di arrivare in bagno per lavarmi e vestirmi!

Quante volte ho cercato aiuto in un calmante, per affrontare in macchina il tragitto, peraltro breve, che mi portava a scuola!

Quante volte, arrivata nei pressi dell’edificio con enorme fatica, (avevo il collo bloccato, dolori insopportabili alla testa e alle braccia) ero stata in dubbio se tornare indietro per rivolgermi ad un medico, oppure provare per l’ennesima volta se la scuola e il lavoro fungevano da antidoto!

Quello non era che l’ultimo atto di un dramma che pensavo fosse concluso con la resa incondizionata di me, che non ce l’avevo fatta a dimostrare alla Commissione fiscale che stavo bene e che, nonostante tutto, ero ancora in grado di svolgere il mio lavoro.

La morte si sconta vivendo

Il mio lavoro non era più neanche nei miei pensieri, nonché nei ricordi, né nei desideri, da quando, ad ottobre, dalla Visita collegiale usci veramente malata e che prima di nove mesi no, non potevo tornare a insegnare.

Ed erano stati buoni, generosi, quei giudici distratti che avevano fretta, perché era tardi, perché erano stanchi e non erano abituati a vedere qualcuno piangere per non andare in pensione…

Così, mossi a pietà, mi avevano dato un’ultima chance, non stilando subito il verdetto di morte.

Che strano! Per dimostrare che di danni ne avevo subiti a bizzeffe da automobilisti distratti, non uno ma due collegi giudicanti avevano trasmesso alle rispettive compagnie assicurative che stavo benissimo, che ero un fiore e che nulla mi spettava a risarcimento del danno.

Il CTU, perito nominato dal tribunale, all’orecchio mi disse, prima di congedarmi dalla visita conclusiva, che sapeva come guarirmi.

Bastava che mi facessi curare da lui!

Così vanno le cose in questo paese, o forse nel mondo, chissà!

Mi ritrovavo sempre a dover dimostrare verità difficilmente documentabili.

Non era forse successo a maggio, quando dovetti strenuamente difendermi da una diagnosi scritta, stampata, fotocopiata all’infinito, perché tutti gli uffici competenti sapessero che avevo la depressione maggiore?

A saperlo che la depressione maggiore non è uno scherzo da niente!

Il neurologo, medico mio di fiducia da almeno vent’anni, per non impelagarsi in una diagnosi veritiera, ma per lui incomprensibile (deficit posturale reattivo), mi mise quell’etichetta, quando mi rivolsi a lui per essere esonerata dall’insegnamento gli ultimi giorni dell’anno, visto che, mio malgrado, non ancora ero venuta in possesso di occhiali idonei a svolgere la mia attività didattica.

”Deficit posturale”? ... chi vuole che ne sappia qualcosa di questa malattia? ... alla ASL non capiscono niente .... ci mettiamo una diagnosi che non può essere contestata da nessuno: .... minimo 60 giorni con una bella “depressione maggiore”...

...no 20 giorni ... no ... rispondeva a me che lo supplicavo di ridurne al minimo indispensabile il numero.

Quelli che mancano alla chiusura dell’anno scolastico sono pochi....... troppo pochi per questa malattia che le ho scritto .... a questa non potranno non credere.

Sicuro che ci hanno creduto. Ci hanno creduto anche troppo.

... mi volevano togliere seduta stante patente e lavoro!

Anche lì a piangere e a supplicare che la macchina, no, la macchina non me la dovevano togliere ...le mie gambe, la mia unica possibilità di movimento autonomo!

E loro a dirmi che la mia era una malattia da DNA impazzito, di quelle che prevedono l’accompagnamento.

A dimostrare che di maggiore avevo solo la rabbia non mi ci volle molto, una volta arrivata, seguendo un iter lunghissimo e stressante, davanti al giudice supremo, la psichiatra della ASL

Ed era tutto cominciato da quegli occhiali andati in frantumi nell’ultimo incidente, a febbraio.

Con gli occhiali quell’11 febbraio andarono in frantumi i miei sogni, le mie speranze, la mia forza di reagire, andarono in frantumi le certezze, quelle mie, quelle del dott. R., fu rimesso in discussione tutto il programma di rieducazione posturale, il mio rendimento sul lavoro, le mie relazioni, la mia identità

Per tre mesi m’illusi che quel senso d’instabilità, quel vedersi girare il mondo attorno, quel non poter guardare senza dolore qualsiasi cosa che non fosse fissa, ferma e dritta in basso, davanti ai miei occhi, quei dolori lancinanti al collo, alle braccia, alla schiena, quel non poter stare più in piedi neanche un minuto, tutto questo dipendesse dal fatto che non avevo abbastanza stimoli.

A conferma di ciò c’era il fatto che, appena riuscivo a guadagnare la cattedra, i disturbi scomparivano.

Ecco dicevo, la scuola è la miglior medicina.

A saperlo che, stando più in alto dei miei interlocutori fermi davanti a me, i fuochi delle lenti non davano più problemi! Erano centrati.

Al dottor R., per capire che non era questione di denti ma di occhiali, ci vollero tre mesi, perché fino ad allora non aveva fatto che limar denti, quelli del ponte fatale di 10 anni prima e poi gli altri, tutti quelli ritenuti responsabili di quegli ondeggiamenti paurosi sulle ascisse e le ordinate degli esami posturometrici.

Le corde tirate spasmodicamente sulle braccia, sul collo, sulla schiena, sulle gambe, sui piedi, tendini e muscoli impazziti nell’estremo tentativo di mantenermi in piedi senza che svenissi dal dolore, quelle cercava di allentare con il suo sempre più convulso accanimento sui pochi denti scampati all’inseguimento di un sogno.

Eppure la sua faccia l’avevo vista rabbuiarsi da subito, il suo volto, cordialmente serafico e ironico, sempre più mostrava il distacco che nasce dalla paura e dal dubbio, perdendo la consueta baldanza.

Che c’entrano gli occhiali?mi dissi; ma ormai ero abituata ai colpi di scena.

Una corsa quella vigilia del ponte del primo maggio sulla tangenziale est, intasata di camion a rimorchio, di tir, di macchine che scappavano, fuggivano dalle grinfie della città, sotto una pioggia battente, con noi che eravamo partiti da Pescara la mattina e che avevamo sulle spalle una montagna di chilometri!

Ancora una volta, arrivata a destinazione, pensai che ne ero venuta a capo, che avevo trovato il bandolo della matassa.

A Peschiera Borromeo era ad aspettarmi, tempestivamente avvisato dal mio vacillante puntello, un nuovo specialista, doctor of optometry.

Costui, dopo due ore, passate da me a inseguire pallini, palline, aste, luci di tutti i colori, eroi di bambini che correvano veloci sul piccolo schermo di un occhiale da pagliaccio, mi disse che, sì di occhiali sbagliati si trattava, ma il peggio era ... ti pareva che ne uscivo pulita! mi dico …era che gli occhi avevano un difetto, il sinistro in particolare.

Che tipo di difetto avessi, ora che ho cambiato ben sei paia di occhiali, e mi sono sottoposta ad ogni tipo d’indagine, ad ogni genere di sevizie, l’ ho capito, ma da sola e da sola ho cercato il rimedio.

Non che gli interpellati, e sono tanti, si siano discostati tanto dal vero, ma ognuno diceva un pezzetto di verità, fra tante cose sbagliate. Era come un puzzle che aveva confuso i suoi pezzi con quelli di un altro.

Così, attraverso il labirinto delle idee, attraverso i cunicoli di strade che divergono, attraverso un cammino infaticabile di fede e di delusioni, di aspettative disattese, di sogni infranti, di speranze fugaci, di tenacia indiscussa di chi, non si voleva piegare, era, è stato e fu un gioco trovare il pezzo mancante del puzzle?


La croce, il pezzo mancante del puzzle, in questo incredibile ma affascinante gioco dell’oca segna il traguardo di quello che per anni ho pensato fosse un gioco assurdo e crudele, ma che oggi mi parla di una Pasqua che non ha mai fine.

Con l’auspicio che ognuno di noi nel suono delle campane riconosca la voce di Dio che, comunque suonino, ci comunica il suo amore per noi vi saluto e vi do appuntamento alla prossima trasmissione


19 aprile 2004


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