sabato 16 dicembre 2006

15 Dal diario di Antonietta

 


Rubrica radiofonica 

Canto:Cristo è risorto veramente

Un caldo e affettuoso saluto, amici di Radio Speranza e benvenuti all’ascolto di questa trasmissione.

Dall’ultima volta è passata una settimana, e da una settimana i paramenti del sacerdote sono verdi, come l’erba dei campi che è tornata a crescere, come la parola di Dio che è venuta a portare la speranza di una vita nuova, svincolata dalle stagioni.

La scorsa volta il tema era la compassione, quella che io non riuscivo ad avere per me, quella che Dio dispensa a piene mani a chi si mostra a lui nudo e bisognoso d’aiuto.

Le parole del profeta Isaia hanno sempre sortito su di me un effetto balsamico, di medicina prodigiosa e potente: “Consolate, consolate il mio popolo”, dice il Signore. Mi bastava sentirle quelle parole che mi sembrava già di stare meglio, presa in braccio dal buon pastore che porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri, anche se tendo a pensare di essere una pecora madre che non ha poi tutto quel bisogno di essere presa in braccio.

Ma bisogna tornare bambini, rinascere dall’alto per vivere questa meravigliosa sensazione di essere stretta al petto di colui che non si è limitato a darci la vita una volta sola, ma continua ogni giorno, immolandosi sopra gli altari e offrendosi a noi, ostia pura e immacolata, per convincerci che non siamo soli, che non ci ha abbandonato neanche un istante da quando è ritornato nella casa del Padre.

Ecco, la difficoltà è quella di tornare bambini, per riposare sicuri nelle sue braccia, senza timore che ci lasci cadere.

Ma quando le notti si fanno più lunghe e i giorni più bui e angosciosi, quando il cielo non accenna a schiarirsi e la preghiera sale inascoltata, bisogna farsi violenza per chiamare in aiuto quel Padre, che tiene girato lo sguardo.

Sono sentimenti che un po’ tutti proviamo, quando siamo oppressi da situazioni che ci schiacciano, sperimentando sulla nostra pelle l’impotenza di fronte ai mali che ci affliggono.

“Signore se vuoi, puoi guarirmi” disse il lebbroso a Gesù e fu istantaneamente guarito.

Se questa parola ti capita, come a me è successo, di leggerla dopo una notte insonne, passata a pregare ad invocare il suo nome, perché ponesse fine al tormento che si rinnova ogni volta che mi distendo, di muscoli e tendini che si ribellano, tesi e contratti a legarti i movimenti, il fiato e la voce, viene inevitabile chiedersi perché e fino a quando la misura non viene colmata.

Ma niente avviene a caso e sempre il Signore ha qualcosa di più da insegnarci.

All’alba, dopo ore passate a cercare uno sbocco, una strada per non impazzire, il mio pensiero è andato ai tanti che negli ospedali e non solo, di notte si sentono più soli, a combattere la quotidiana battaglia con il male che li attanaglia.Li ho guardati e mi sono guardata, ho alzato gli occhi al crocifisso e insieme a Gesù mi sono rivolta al Padre, nostro, mio, di Gesù, di tutti, e ho ritrovato il filo che pareva spezzato, il senso che sembrava smarrito, la gioia di potere, con Lui, condividere la compassione ed entrare con Lui in comunione.

Perché Dio risponda alle nostre preghiere è necessario che smettiamo di fare i navigatori solitari.

Se prescindiamo dagli altri, se pensiamo che il numero perfetto sia il due, e non il tre, noi, il fratello, i fratelli e Lui, non otterremo risposte che ci soddisfino.Perché la corrente passi, il circuito deve essere un triangolo, come quello con cui si suole rappresentare la Trinità.Ai suoi vertici attaccheremo le luci: su in alto, quella che viene da Dio, ai lati la nostra e quella del fratello o dei fratelli che Lui ci chiama ad amare.

Leggendo il Vangelo ci accorgiamo che Gesù interviene sempre su quelle malattie che ostacolano la relazione dell’uomo con tutto ciò che da Lui è stato creato, impediscono cioè che passi la corrente e si accenda la luce.

Perciò Gesù guarisce il lebbroso, la cui malattia lo teneva separato dalla comunità a cui apparteneva..

Ma quanta strada ho dovuto percorrere per entrare in quella relazione misteriosa e straordinaria con tutto ciò che cade sotto i miei occhi!


1 marzo 2001

La foglia

Seduta vicino alla statua di S. Giuseppe mi sorprendo ad osservare le piante che vi sono state ammassate, per fare posto a quelle più rigogliose e belle destinate all’altare.

Guardo le foglie, le prime vittime della scarsa luce che c’è nella chiesa: macchie sempre più grandi stanno sostituendo il verde brillante che era il loro vestito.

Ogni foglia ha il suo tormento, la sua piccola grande lebbra.,Alcune, ormai, sembrano completamente morte, accartocciate come sono sopra se stesse.Ma c’è una foglia in un vaso, non dei più grandi, che non finisce mai di stupirmi: è attaccata ad uno stelo spezzato, tagliato in due, con la punta che tocca la terra, straordinariamente verde e rigogliosa.

Ogni giorno mi accerto che non sia morta, ogni giorno la guardo miracolosamente vivere, attaccata al fusto da un filo invisibile, ignorata del tutto dalla malattia che infesta tute le altre.

Quella foglia sono più di tre mesi che è lì e mi fa pensare a tutti quelli che miracolosamente lo Spirito tiene in vita, perché gli uomini stupiscano e credano.

Ma di Dio non mi parlano solo le piante, ma anche e soprattutto i fratelli che incontro sulla mia strada.


 luglio 2002

Preghiera per Paola

Paola è dono di Dio, è mezzo e strumento di grazia.

Oggi, quando sono andata a trovarla, in ospedale, non ho visto il suo volto gonfio e tumefatto, né i corti capelli da poco ricresciuti dopo lo scempio che ne aveva fatto la chemio, né la ferita profonda dietro l'orecchio dell'ultima speranza da poco naufragata, non ho visto i cerotti che le coprivano le vene martoriate, né sotto le coperte, le gambe immobili, per il male che si è esteso alle anche.

Ho visto, i suoi occhi spalancati e luminosi, il volto disteso e sereno, il sorriso aperto e gioioso ad accogliere chi, turbato, si recava a visitarla.

Attraverso le mani bianche e sottili comunicava il calore di un cuore pieno d’amore per gli altri; in quelle ho visto le mani di chi ha trasformato la sua vita in preghiera e offerta continua di sé.

Mentre si muovevano, continuavano a parlarmi di Dio, più che ogni altra parte del corpo, un corpo in rovina, attaccato nelle sue fibre più profonde da un male subdolo che non perdona.

A Chi continua a darle la vita, a Colui che rende possibile questi miracoli, ho osato chiedere l’impossibile, unendo la mia, alla voce di quanti la conoscono e l’amano e ho pregato così:

”Signore mio Dio, pur se sappiamo che niente avviene a caso e neanche un capello verrà perso di quanto hai creato, che niente delle cose che da Te vengono sarà disprezzato, accogli questa preghiera, fatta nel tempo della nostra storia mortale, un tempo in cui le cose ci si presentano con i colori e i profumi del mondo, un tempo in cui gli affetti dell'anima sono ancora indirizzati a ciò che sentiamo con le nostre orecchie e vediamo con i nostri occhi, un tempo in cui il dolore di un uomo ci fa compassione quando teme per la sua compagna che se ne sta andando, lasciandogli due piccoli angeli a cui dovrà provvedere da solo.

Signore questa sorella tu l' hai donata a sua madre, a suo padre, a suo marito, ai suoi figli e a noi che abbiamo potuto conoscerla e apprezzarne la comunione costante con te.

Signore, ti prego, non toglierci prima del tempo il tuo dono, fa' che possiamo ancora di più apprezzarlo, fa' Signore che in lei possiamo continuare a contemplarti ed amarti.


Canto:Prendi la mia vita


Il Signore non è stato sordo alle nostre preghiere e continua a donarci il sorriso e la gioia dipinta sul volto di Paola che ha ancora tante cose da insegnare a noi e ai suoi due piccoli angeli.

Questa è la realtà che oggi vivo, una realtà fatta di relazioni profonde con tutto ciò che porta il mio pensiero a Dio.

Non mi sento sola in questa stupenda avventura, anche quando il corpo fa le bizze e mi impedisce di dormire o di spostarmi come vorrei.

Anni addietro lo stare sola fu il problema più grande che mi trovai ad affrontare.


 "Il gioco dell'Oca"

 1978

In autunno ci trasferimmo nella nuova casa, più grande e più bella di quella che ci aveva ospitato appena sposati. L'eccitazione per tutto ciò che era nuovo mi prese in un vortice e per un breve periodo non ebbi tempo di pensare ai miei mali.

Solo quando tutto finì, presi coscienza che un nuovo nemico si affacciava all'orizzonte.

Non ne distinguevo i contorni, non conoscevo le sue armi e forse all'inizio ho pensato che non era me che cercava.

Ben presto mi accorsi che quella macchia indistinta era un mostro orribile e spaventoso, che si accingeva a dare il colpo di grazia a chi aveva pochi strumenti ormai logori, per combattere ancora. Anche se feci fatica a riconoscerlo, era quello stesso che fu messo a tacere con qualche goccia di valeriana anni addietro.

Dov'era la consueta baldanza? Dove le sicurezze antiche?

Non era il male fisico che m'impensieriva. Ormai avevo imparato a convivere con lombosciatalgie, cervicobrachialgie, bruciori di stomaco e infezioni vaginali, ma quello strano malessere che ti prende improvviso senza apparente motivo e che ti fa sentire la testa vuota e le gambe molli, mentre lo stomaco si stringe in una morsa era cosa nuova per me.

Ti passa la voglia di vivere, la voglia di fare e di pensare, e piombi in un'apatia senza fine, mentre conati di vomito ti sconquassano tutta.

Dovetti consultare il neurologo, che mi prescrisse la "cura del sonno", da seguire per un mese intero.

Grande fu la meraviglia quando mi accorsi che le medicine che prendevo il sonno me lo facevano passare, non venire. Così per un mese stetti con gli occhi sbarrati, giorno e notte, perché nessuno diventasse padrone dei miei pensieri.

1979

I disturbi nervosi divennero sempre più frequenti e invalidanti e in proporzione aumentavano le medicine che ogni giorno dovevo assumere per combatterli. Ma la loro efficacia era fortemente vanificata dalla mia fortissima resistenza a non dipendere da nessuna cosa o persona.

Quanto più proclamavo la mia indipendenza, tanto più i sintomi mi costringevano ad una dipendenza inaccettabile.

Mio marito, mia madre e tutti quelli che volenti o nolenti si trovarono sulla mia strada ne furono vittime inconsapevoli, perché il disturbo si acuiva, quando rimanevo sola.

Gli anni successivi sono avvolti da una nube spessa e densa.

Ricordo in modo indistinto solo i miei sempre più deboli tentativi di parare i colpi che mi venivano da un fisico sempre più prostrato e da una psiche che, irrazionalmente, sferrava i suoi attacchi quando meno me l'aspettavo.

Ho davanti a me il corposo dossier che un preside molto scrupoloso, nel 1992, inviò a me e, per conoscenza, all'ufficio competente del Provveditorato alla Pubblica Istruzione, perché accertasse la mia idoneità all'insegnamento.

In esso sono scrupolosamente elencati tutti i congedi per motivi di salute, con relativa diagnosi, dal 1975 al 1992.

La mia vita di quegli anni è tutta lì.

Aridi documenti alzano il velo su una realtà di cui solo ora faticosamente sto prendendo pienamente coscienza.

Il nuovo nemico aveva offuscato il ricordo di tutte le volte che avevo dovuto fermarmi per blocchi alla schiena e al collo.

Avevo però ben chiaro in mente tutti i modi per districarmi nel labirinto dell'altrui ignoranza, provvedendo di volta in volta a suggerire al medico la diagnosi e la cura.

Non sempre, però, le cose andavano per il verso giusto

Così, ogni volta che mi mettevo in mente di prendere di petto la situazione, c'era chi tentava di allungarmi la schiena legandomi ad un letto che si apriva all'improvviso, salvo poi rimediare, proponendomi un nuovo intervento; chi l'intervento lo voleva fare al ginocchio sinistro che nel frattempo aveva cominciato a farmi male; chi invece si rifiutava di prendere in considerazione il mio persistente dolore alla spalla sinistra, adducendo le più strane e stravaganti motivazioni.

A tal proposito ricordo una volta che mi recai da un ortopedico convenzionato. Avevo l'impegnativa del medico di base che parlava di lombosciatalgia.

Quando finì di visitarmi gli feci presente che soffrivo di dolori violenti alla spalla. "Per questo ci vuole un'altra impegnativa" fu la risposta.

Forse rivolgendomi ad un luminare sarei stata ascoltata. Ma non fu così.

Il grande barone, senza neanche farmi sedere, alla fine di una visita sommaria, mi prescrisse per la schiena le solite cure che avevo imparato a memoria; ma della spalla non volle saperne e alla mia insistenza rispose seccato che era ininfluente, dissolvendosi nel nulla.

Mi rimasero in mano la salata parcella e uno stinto foglietto con i consigli per un'improponibile ginnastica che una segretaria molto solerte si era precipitata a consegnarmi.

!980

La ricerca

Non avevo armi, però, per difendermi dal progressivo e sconvolgente malessere per quel nemico che vigliaccamente mi colpiva alle spalle e che mi lasciava ogni volta più prostrata.

Entrai in analisi per conoscerne il volto.

Non avevo mai letto un libro di psicologia, né ero informata su ciò che mi aspettava.

Ma il coraggio non mi è mai mancato, né la presunzione di poter trovare l'antidoto a tutto.

Il primo psicoterapeuta era un uomo tranquillo, attempato, con non pochi problemi, irrisolti. La sua disponibilità fu totale, tanto che non si sottrasse alla mia richiesta di fare le sedute a domicilio.

Intanto continuavo la mia lotta con le pillole, che mi ostinavo a non prendere nella misura dovuta, diminuendo la dose ogni volta che mi accorgevo di un sia pur lieve miglioramento.

Stavo bene solo quando potevo, in piena libertà, dedicarmi freneticamente ai miei hobby creativi; cimentandomi in imprese ritenute impossibili, che mettevano a dura prova la salute.

1981

Così, in occasione della Prima Comunione di mio figlio, provvidi a tutto: dalle bomboniere fatte da me, ai vestiti che avrei dovuto indossare, ben quattro, confezionati personalmente, al rinfresco in campagna per 100 persone, con ogni genere di leccornie che la mia fantasia, associata ad una non comune abilità, aveva saputo suggerirmi.

Ne uscii stremata ma il peggio venne poco dopo, quando mio figlio partì in luglio per il suo primo campeggio.

Finalmente non avevo più l'obbligo di stare bene, perché a lui non fossero sottratte le occasioni di divertimento a cui ogni bimbo ha diritto.

Un'ambulanza a sirene spiegate mi portò il giorno dopo al reparto di neurochirurgia dell'ospedale di Pescara. Una testa impazzita aveva fatto pensare ad un'emorragia cerebrale.

Erano i primi di luglio.

Subii la vergogna del ricovero in una casa di cura per malattie mentali; ma lo spettacolo cui mi trovai ad assistere fu la medicina più salutare.

Lì non sarei di certo guarita, perché quelle facce stravolte dal male, non avevano niente di umano. Erano i miei incubi notturni, erano la mia paura personificata.

Così, dopo due giorni me ne andai, dopo aver apposto una firma su uno stampato che sollevava la Clinica da ogni responsabilità.

A farne le spese fu il povero dott. S. a cui avevo attribuito la responsabilità di non avermi fatto guarire.

Sì perché allora pensavo che l'analisi avesse un effetto taumaturgico immediato.

Io ero abituata a risolvere i problemi in fretta; cosa ne sapevo dei tempi lunghi di una terapia psicoanalitica freudiana?

Forse uno specialista di gran fama conosceva la soluzione.

A Roma c'era chi faceva al mio caso.

Al termine dell'incontro, l'illustre professore rimasto in silenzio fino a quel momento, tanto da farmi dubitare che stesse in ascolto disse: "Lei non vede il colore dei fiori, non sente il loro profumo".

Quante volte, in seguito, mi sono chiesta che significato avessero quelle parole!


Ancora tanta acqua doveva passare sotto i ponti.

Oggi, guardando il verde di un prato, che esponeva il suo manto fresco e lucente, ai timidi e tiepidi raggi il un sole un pochino più alto nel cielo, ho cercato i segni della vita che si rinnova e che pulsa fremente nelle bacche spuntate ieri sui rami.Sono riandata a quando correvo e non avevo tempo di fermarmi a guardare la natura che si risveglia dal suo letargo invernale.Ho pensato alle ultime primavere che mi hanno parlato di Dio, con il linguaggio dei fiori appena sbocciati, con quello dei fiori appassiti, con quello dei fiori recisi per donare un sentimento che da Lui viene e a lui deve tornare: quello di comunicare al fratello che non è solo, quando ride e quando piange, quando nasce e quando muore.

E’ giunto il momento di salutarvi, anche se oggi lo faccio a malincuore, per via di quei fiori di cui non sentivo il profumo e non vedevo il colore.

Lasciamoci catturare dal loro linguaggio e non ci sembrerà così strano che Dio si preoccupi così tanto dei loro vestiti.

Canto:Tu ci hai fatti per te

19 gennaio 2004



foto©http://antomilella.files.wordpress.com/2006/09/28.jpg


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