Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Mia gioia sei
Un caro e affettuoso saluto a tutti, cari amici.
Le feste sono finite.Il mondo si è
rimesso in moto dopo l’orgia di cibo, di acquisti, di regali di visite,
di obblighi da espletare, di divertimento da non lasciarsi scappare.
E anche al più convinto e fedele
cristiano gli è andata stretta quest’atmosfera, dove il Bambinello è
mischiato con tutto, proprio tutto ciò che non gli appartiene.
Per fortuna che non s’inquina,
essendo lui quello che decanta le acque, rendendole limpide e pure,
capaci di rinnovare, plasmare, trasformare tutte le cose, ridonando loro
la trasparenza alla quale sono chiamate per riflettere la luce di Dio.
Sempre più spesso viene la voglia di
bendarsi gli occhi e turarsi le orecchie, per non vedere e non sentire
ciò che sembra la negazione di Dio.
Ma quando sembra che non ci sia,
quando non riusciamo a sentirne la voce è forse perché si è ritirato a
pregare ancora e di più, se fosse possibile, come soleva, quando è
venuto ad abitare tra gli uomini, obbedendo ad una legge scritta nel
cuore, di un amore senza frontiere, di un servizio che non ha mai fine,
di un’offerta perenne all’altare, perché smettano di avere paura, tutti
quelli a cui non è dato fuggire.
Grazie a Dio, l’Epifania tutte le
feste non se le porta via, perché, se i doni del mondo rispettano i
calendari, per i suoi, tutti i momenti sono propizi, perché il tempo,
morendo, l’ha trasformato in occasione perenne di grazia.
Non a caso la liturgia delle feste
non si conclude con il 6 di gennaio, giorno dell’Epifania, ma con la
domenica successiva in cui si celebra, il battesimo di Gesù, inizio e
fondamento della festa più grande, preparata da Dio per ogni uomo.
La Chiesa, per paura che, riponendo
in soffitta il Bambinello, ci mettessimo pure ciò che ci aveva portato,
per ricordarci che non c’è momento che non ce lo dia, ce lo presenta che
si mischia alla folla, per ricevere da un uomo, Giovanni, ciò che lui è
venuto a portare, rinnovando quel lavacro di acqua, con lo Spirito su
di lui effuso.
Ma per conoscere e apprezzare e
godere del dono, è necessario che lo seguiamo sulle strade da lui
percorse, per sentire che cosa ha da dirci, con chi si mischia, chi
predilige, a chi si rivolge, come si pone, cosa fa tra un miracolo e
l’altro, tra un insegnamento e il successivo.
E’ straordinario come seguendolo,
passo passo, ci accorgiamo che la preghiera è ciò che lega la sua storia
alla nostra: la preghiera fatta al Padre mediante lo Spirito.
Gesù, non ha avuto paura di
sporcarsi, di inquinarsi, immergendosi in questo atomo opaco del male
come dice un poeta che non conosceva la storia, non si è tirato da
parte, quando si è trattato di immergersi tutto in questa brodaglia
melmosa e fetida dei nostri insulsi, sconvolti e irriconoscibili
presepi.
Lui l’acqua la rende chiara e pulita, prendendone sopra di se tutto lo sporco e il luridume.
Ma, come la calamita attrae a sé
tutti i materiali ferrosi, non cambiando la sua natura né la sua
funzione, una volta che li togliamo, così Gesù, rimane lo stesso, capace
di mettere sopra l’altare oltre alle scorie, se stesso, per bruciare
insieme ad esse e donare al mondo la speranza di essere per sempre
salvato..
Gesù non ha avuto paura di
mischiarsi con noi, perché non si è mai staccato dal Padre a cui è
rimasto unito indissolubilmente attraverso la preghiera.
Per conoscere la volontà di Dio bisogna frequentarlo, vedere quali luoghi predilige, quali sono i suoi gusti.
Bisogna viverci insieme e anche
dormirci, perché non ci siano sconosciuti i modi e i tempi delle sue
azioni, che impareremo ad amare perché ci vengono da Chi non ha creato
niente per sbaglio e, tutto ciò che ha creato, lo ha per primo amato.
Così anche noi non dobbiamo avere paura a vivere nel mondo e frequentare chi al mondo appartiene.
Gesù ci dà l’esempio di come
tuffarvisi dentro, senza timore farci male, se ci manteniamo stretti a
lui senza mai allentare la presa.
Canto:Mio rifugio sei tu
Prima di riporlo, nel silenzio delle
nostre case, tornate alla normalità dei, giorni feriali, ci possiamo
permettere finalmente di coccolarlo, di stringerlo al petto, di adorarlo
con gli occhi e con il cuore questo Gesù, da cui si sprigionerà tanta
forza da farci rimanere tramortiti.
Godiamoci la tenerezza delle sue
mani, delle sue piccole e fragili braccia, del suo essere bisognoso di
tutto, mentre lo rimuoviamo dalla culla, che lo ha accolto per tutti i
giorni delle feste appena passate.
Illudiamoci almeno per un momento
che possiamo essergli d’aiuto, che possiamo noi riscaldarlo, cullarlo,
vigilare a che non si svegli, giusto il tempo per trasferirlo in un
posto più idoneo, che non sia la soffitta o l’umida e fredda cantina,
aspettando che cresca nel cuore e ci ammaestri pian piano.
I trenta anni che occorsero a Gesù
per prepararsi al suo ministero, su cui la liturgia corre veloce, ci
siano maestri e si possono riassumere così, alla luce del vangelo di
Luca: “A Nazaret Gesù cresceva e si fortificava, nel corpo e nello
spirito, stando sottomesso al padre e alla madre”
La Chiesa ci chiama a calare nella
nostra quotidianità, gli insegnamenti che ci vengono dal vangelo, che ci
racconta tutto ciò che ci serve per smettere di preoccuparci di fare,
per impegnarci ad essere figli di Dio e a comportarci di conseguenza.Se
Gesù lo abbiamo fatto crescere dentro di noi, la cosa non sarà poi così
difficile.
Tempo addietro mi colpì una frase che trascrissi sul mio diario
Non voglio vivere neanche un momento
della mia vita senza senso”che mi affrettai a correggere quando mi
accorsi che non era facile che questo desiderio si realizzasse. Così la
cambiai con una preghiera: ”Signore ti offro tutti i momenti di non
senso della mia vita”
Ma seguendo il Signore nel suo
cammino dalla Galilea alla Giudea, da Nazaret a Gerusalemme, non ho
potuto fare a meno di scrivere: ”Quando il non senso delle mie giornate
si prolunga è la preghiera che dà loro un senso”.
Sono dovuta entrare con lui in
Gerusalemme, seguirlo nell’orto e con lui sudare sangue nell’abbandono
dei suoi più cari, ho dovuto con lui salire il calvario e osservare
impotente il non senso di quella croce, di quella morte di un Dio fatto
uomo che era venuto a salvarci, uscendo fuori da tutti gli schemi.
Con Maria, in silenzio, ho dovuto
aspettare quegli istanti insensati di Un Dio folle, folle d’amore per la
sua sposa, la Chiesa, che mi dividevano da Lui.
In silenzio e con l’angoscia nel
cuore ho aspettato che risalisse dagli inferi, il giorno, i giorni più
lunghi nell’attesa insensata che risorgesse.
Quanti momenti di non senso,
vissuti, meditati accolti, quante morti quante resurrezioni
nell’apparente ordinarietà della mia vita!
Se ripenso ai giorni passati, un
brivido mi attraversa le ossa, quando il valore alle mie giornate non lo
dava il rapporto fiducioso in un Dio che si fa compagno, amico, sposo
fratello, perché tu non abbia a soffrire.Con gli occhi bendati non
vedevo la mano che mi tendeva attraverso tutti quelli che mi ha messo
accanto per lenirmi il dolore, per curarmi le ferite, per venirmi
incontro nelle necessità.
Compagni invisibili, di un viaggio vissuto nella solitudine dei pensieri e delle aspettative.
Nel 1976 pretendevo molto dal mondo, ma ancora di più da me stessa.
Il Gioco dell'oca
Il 5 gennaio era la data fatidica.
Erano passati 10 mesi da quando
un piccolo ospedale di provincia aveva accolto le lacrime di gioia e
commozione del medico più che mie, che era riuscito ad ingessarmi, due
anni dal momento in cui ero stata costretta, di colpo , a fermarmi.
Come quell’ultimo atto poteva non ripagarmi?Così almeno pensavo.
Il rumore della sega elettrica
che si muoveva su un corpo che aveva cessato di appartenermi, non
attrasse la mia attenzione, ma il tonfo sì, quello della bianca
impalcatura,che inerte, cadde con fragore sul pavimento.
Priva di qualsiasi sostegno, mi piegai in due, come un albero colpito da un fulmine, senza riuscire ad alzarmi.
Nessuno, né allora né mai, mi disse che avevo bisogno di riabilitazione.
Solo adesso capisco che non potevo pretendere di stare bene subito.
Ma perché i medici danno tutto per scontato?
Buttata in un letto d'ospedale,
lontana dai miei cari, conobbi la notte più lunga: disperazione, rabbia,
impotenza mi fecero piombare in uno sconforto buio e sconfinato.
Ritornò prepotente la paura di un avversario sconosciuto e implacabile.
La morte mi si affacciò per la prima volta alla mente. Anch'io avrei dovuto soccombere.
Tornai a casa, domata ma non vinta.
Avevo cercato, nel periodo della degenza, di carpire qualche indicazione che mi potesse essere utile.
Forse ce l'avrei fatta se avessi
eseguito con costanza un esercizio che mi era stato indicato come
l'unico adatto a rinforzare i muscoli della schiena.
M'impegnai allo spasimo: 100,
200, 300 volte al giorno a sollevare la testa, inarcando la schiena, con
i piedi imprigionati nelle sbarre del letto. Solo da poco ho saputo che
quello è il modo migliore per distruggere una colonna vertebrale. La
voglia di vivere ebbe la meglio.
Passarono i mesi e, quasi senza
accorgermene, arrivò l'autunno e con lui la riapertura della scuola.
Quanto mi era mancata! Non avevo cessato un istante di pensare al mio
lavoro, agli alunni a cui avevo un mondo di cose da insegnare.
Finalmente potevo dimostrare cosa valevo! Bastava mettermi alla prova.
Ma il nemico era in agguato.
Mentre mi accingevo a salire le
scale della casa di mio fratello mi fermai all'improvviso. Perché la
gamba destra non rispondeva ai comandi?
Ma ormai la strada la conoscevo
bene. A Bologna mi dissero che non avevo nulla di organico e che solo un
neurologo poteva curare i miei nervi impazziti.
A quei tempi non sapevo neanche che esistessero i neurologi né tanto meno avevo mai sentito parlare di somatizzazioni.
Senza farmi troppe domande, cercai il più in fretta possibile di eliminare l'inconveniente.
1978 Il dolore alla gamba
scomparve sì, ma per far posto a bruciori di stomaco sempre più forti.
In montagna, dove ogni anno mi recavo con la famiglia di mio marito,
finirono per chiamarmi "alka seltzer" con grande divertimento di tutti,
me compresa.
I miei acciacchi erano diventati spunto per battute anche pesanti.
Un giorno, mentre insieme alle
mie cognate ci accingevamo a guadagnare l'ultima rampa di scale che
portava alla mansarda, battei violentemente il capo al soffitto.
Ormai era diventato un gioco ridere delle mie malattie e quella sera si scherzava proprio su questi.
Il caso volle che avessi da poco
finito di enumerare le parti del corpo che non funzionavano, sostenendo
orgogliosa che almeno la testa era salva, quando il violento dolore mi
ricordò le numerose e grosse cisti che nel giro di pochi mesi mi erano
esplose in testa.
L'ilarità generale coprì il mio riso misto a pianto ed ebbi compassione di me.
Nessuno si accorse del mio
turbamento e anch'io ben presto rimossi il sentimento vissuto per un
attimo, non degno di esistere. Ormai la mia preoccupazione era eliminare
il problema che di volta in volta si presentava.
Così mi feci togliere, senza tanto pensarci, quegli inestetici gonfiori.
Rifiutai l'anestesia totale, perché mi terrorizzava l'idea di perdere il controllo dei miei pensieri.
Il dolore fu sconvolgente, ma lo sopportai con il solito stoicismo.
In seguito nessuno mi chiese più
se volevo essere addormentata per interventi di poco conto, ma molto
dolorosi, cui dovevo spesso sottopormi per problemi ginecologici.
Così, quando un giorno, non
molto lontano, durante una conizzazione all'utero, da sveglia, gettai un
urlo sovrumano, il ginecologo si meravigliò perché quella reazione non
se l'aspettava da una donna che ne aveva passate tante.
Risposi che non ero una bestia
Canto: La Samaritana
Come potevo trovare compassione se io per prima non riuscivo a provarla per me?
Per essere saziati bisogna avere fame, ho annotato su un foglio.
Ma questa per me è stata sempre
un’impresa difficile, perché pensavo che la fragilità, la debolezza
fossero vizi da combattere non sentimenti da coltivare.
A proposito di compassione ecco quello che scrivevo lo scorso anno a conclusione di tutte le feste
.
7 gennaio 2003
Aspettando che Giovanni si svegli.
Oggi sono cominciate le mie vacanze, quando sono finite quelle degli altri.
Il mondo si è rimesso a girare
con le sue leggi e i suoi ritmi, io ritorno ai miei più consoni, perché
pur nella fatica del procedere, riesco a gustare più a fondo e per tempi
più prolungati, la grazia di Dio e a sintonizzarmi con meno difficoltà
sulle frequenze dello spirito.
Così questa mattina, dopo la Messa,sono tornata a casa con in testa mille cose da fare.
Ma erano già le 10,30 quando
agli occhi mi è balzato il presepe.Certo non ci avevo pensato: il
presepe bisognava disfarlo e riporlo con ordine per il prossimo
anno.Dovevo farlo perché domani Anna, avrebbe provveduto a spolverare e
lavare per bene i piani della libreria, che dovevo liberare per tempo
Questa mattina, nella preghiera
con Gianni, il compagno che Dio mi ha messo accanto con cui ho imparato a
pregare, per costruire quel ”noi“assente quando ci siamo sposati, avevo
parlato del presepe come guida di questo Natale e di lui avrei voluto
scrivere, del dono che per me era diventato, un dono sempre più
imprevedibile e ricco.
Quel presepe avrei voluto
stamparlo nel cuore, quello della Chiesa di S. Giuseppe che mi era parso
tutto sbagliato, ma che non aveva cessato di parlarmi.
Del resto non poteva che essere
così, dopo che per due martedì consecutivi avevamo invocato lo Spirito
su chi lo stava preparando.
Di quel presepe, messo non in
cantina, ma riposto nel cuore avrei voluto usare ogni immagine, perché
nel presepe c’era l’uomo, tutto l’uomo, c’ero io che mi riconoscevo in
quell’asino che girava intorno al pozzo, senza che nessuno prendesse
l’acqua o quello che continuava a pescare nel suo piccolo stagno un
pesce , senza accorgersi che glielo avevano rubato o quel cielo senza
stelle perché la cometa le aveva tutte offuscate o quelle case sull’alta
montagna , illuminate, ma vuote di abitanti e di vita.
Avrei voluto ripescare le
immagini, durante i giorni dell’anno, di quella sabbia setacciata con
cura da Massimo e Anselmo, messa in abbondanza davanti alla grotta, per
ricordare che siamo polvere sulla bilancia dell’Altissimo, che siamo
deserto arido, senz’acqua, avrei voluto tenere lo sguardo fisso ai
pastori che in quel deserto forzato camminavano sicuri e dritti, perché
davanti avevano la luce che si sprigionava da dentro alla grotta.
Avrei poi sicuramente voluto
tenere a portata di mano la mangiatoia e in essa immedesimarmi, perché è
lì che Gesù l’ho visto e mi sono persa.
La Madonna, S. Giuseppe, la
cometa, i Magi, la grotta, fredda e umida, lontana dai rumori della
città…in quante parti mi sentivo scomposta, in quante contrastanti, dai
sapienti dell’oriente lontano, ai doni di morte e di vita, all’erba,
alla roccia alle pecore, le grasse e le magre, le ferite e quelle appena
nate e i pastori e il Pastore che le chiama per nome e le guida e le
accarezza e le prende in braccio, perché ha compassione del suo gregge,
perché ha bisogno di lui.
Ecco la compassione era il tema
delle varie letture che per sbaglio ho letto questa mattina. L’ho
scritto anche all’inizio di questo diario: Dio ci ha amato per primo, ha
avuto compassione di noi.
Per compatire bisogna fare un
trasloco dall’io al tu, bisogna diventare come il tu pecora, agnello,
asino, pescatore, casa vuota posta sopra le alture, sabbia setacciata di
un deserto sconfinato…
Bisogna compatire, patire con,
soffrire con , perché il presepe non sia disgregato e sconnesso, bisogna
compatire perché i pezzi siano funzionali l’uno all’altro, bisogna
compatire se vogliamo che l’opera dell’uomo diventi capolavoro di Dio.
Quando questa mattina ho
disfatto il presepe, ho con devozione preso il bambino e ho pensato che
un trasloco avrei voluto farlo dentro di lui, ma mi è sembrato un
azzardo e una bestemmia.
Avrei voluto tanto essere lui… mi ha consolato che lui non ha avuto problemi a traslocare in una fredda e umida mangiatoia.
Sicuramente non mi avrebbe negato la gioia di essere ospitato nella mia casa sporca e disordinata.
Avrebbe lui provveduto a metterla in ordine e a purificarla fino a trasformare un desideri blasfemo in una realtà possibile.
Diventare come Lui., a questo Dio ci
ha chiamati , per questo ci ha scelti. Ho ringraziato il Signore perché
quest’anno mi ha fatto lezione davanti ad un presepe, l’ho ringraziato
per il dono di tanti fratelli che mi ha dato da compatire da
accompagnare, da amare.
Ma specialmente l’ho ringraziato per tutti quelli che in silenzio e senza pretese lo hanno fatto senza che me ne accorgessi.
Le parole del profeta Isaia che sono
risuonate nel tempo dell’avvento non a caso ritornano a consolarci nel
giorno del battesimo di Gesù.
Consolate, consolate il mio popolo,
dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è
finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha
ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati.
Una voce grida:”Nel deserto
preparate la via al Signore, appianate nella steppa la via al nostro
Dio.Ogni valle sia colmata, ogni monte o colle siano abbassati;il
terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la
bocca del Signore ha parlato.”
Sali su un alto monte, tu che rechi
buone notizie in Sion; alza la voce, non temere:annunzia alla città di
Giuda:”Ecco il vostro Dio! Ecco il Signore Dio viene con potenza, con il
braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con se il premio e i
suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e
con il suo braccio lo raduna, porta gli agnellini sul petto e conduce
pian piano le pecore madri”.
Lasciamoci dunque consolare da
questo Dio di tenerezza che si è lasciato prendere in braccio lo spazio
che intercorre tra il Natale e l’Epifania, ma che per tutto il resto
dell’anno non fa altro che farlo Lui con braccia più poderose e con un
amore che non conosce misura.
Canto:Signore il tuo amore è grande
12 gennaio 2004
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