martedì 28 novembre 2006

12 Dal diario di Antonietta

  

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta.

Un caro e affettuoso saluto a voi, amici di Radio Speranza, da Antonietta.

Le feste corrono in fretta e già siamo al giro di boa, ad aspettare che anche i re Magi arrivino a contemplare e adorare il Signore.

Maria continua a guidarci, la stella cometa che scompare quando siamo giunti alla meta.

La liturgia ce la ricorda nel giorno che dà inizio all’anno, il primo gennaio, festa di Maria madre di Dio, perché con lei siamo sicuri di arrivare lì dove risplende la luce.L’augurio che vi faccio è che tutti possano guardare all’anno nuovo con i suoi occhi che sono poi quelli del figlio, che ci porta a sollevare lo sguardo, a guardare oltre, per permettergli di entrare nelle nostre case, nei nostri presepi, nei nostri cuori.

Perché questo accada bisogna che davanti a Lui ci presentiamo come quel pastore tanto povero, di cui parla una leggenda natalizia, che non aveva proprio nulla da offrirgli e si vergognava molto, rispetto agli altri che a gara si affollarono davanti alla grotta,, per consegnare a Maria, ciò di cui avevano piene le mani.

La Madonna, non sapendo come fare per riceverli tutti, mise in braccio al pastorello il bambino, perché era l’unico, per sua fortuna, ad avere le mani libere.

Purtroppo i nostri Natali sono sempre più ingombri di doni, ma sempre più poveri del Dono che Dio ci ha fatto: suo figlio Gesù.




Le parole del profeta Isaia“Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici.Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore di Dio.” ci si chiede come potranno avverarsi e incarnarsi nella nostra vita, se quell’albero lo soffochiamo con i tanti, troppi pacchi ingombranti che coprono non solo la radice, ma la vista di tutto l’albero, che si suole fare a Natale, ai piedi del quale sono posati e che la notte della vigilia siamo soliti scartare, appesantiti dal cibo e dal sonno e perché no? anche dalla noia di un rito,,,, che alla maggior parte non dice più nulla.

Rimangono, finita la festa, sparse le carte e le coccarde e i fiocchi che hanno reso belli i regali, carte non più utilizzabili, stropicciate, strappate dalla frenesia di sapere se finalmente l’abbiamo trovata la pietra filosofale, ciò che continuiamo a cercare nei negozi del mondo,, dove non ti regalano niente, se non dopo che tu hai pagato.

Ma se la radice la lasciamo respirare, vedremo spuntare quel dono speciale,, che ha pensato a pagare Lui di persona, perché l’albero non marcisca, ma diventi rigoglioso e porti frutti in abbondanza .

Per non parlare dei presepi, che se ne fanno sempre di meno…

Se ne vendono di preconfezionati, così non ci si impazzisce a costruirli, cercando la carta per i monti, quella del firmamento e poi il muschio….dove andare a trovarlo? e la sabbia per il deserto ecc. ecc..

Ecco la sabbia… nessuno ci pensa che sia indispensabile per un presepe, mentre le statuine che riproducono i movimenti streotipati del ciabattino, dell’artigiano, del macellaio e via dicendo, quelle si trovano un po’ dappertutto, anche nei supermercati.

I presepi animati sono quelli che mi fanno stare più male, perché fotografano lo stare fermo dell’uomo che non riesce a smettere di fare sempre le stesse cose, sempre uguali, noiosamente stoltamente uguali e non si accorge che sta succedendo qualcosa, vicino a lui di veramente speciale, unico, irripetibile..

Solo i pastori riescono a percepire nel silenzio delle loro dimore itineranti, l’annuncio che viene dal cielo ed è difficile che siano animati perchè li si immagina sempre fermi davanti alla grotta, folgorati dalla luce che da essa emana, estasiati a contemplare il miracolo.

I pastori camminano sempre su prati erbosi, su luoghi di montagna dove non mi risulta che ci sia la sabbia.

Eppure lo scorso anno, quando vidi Massimo e Anselmo fare il presepe nella nostra chiesa, mi interrogai su dove avrebbero messo la sabbia che avevano in quantità presa dal mare.

Dopo averla setacciata con cura, la distribuirono davanti alla grotta, lontano dalla scena animata di tanta gente occupata a fare le stesse cose: un asino che girava a vuoto intorno ad un pozzo, un pescatore che gettava l’amo ad un pesce scappato e poi in alto una città senza uomini, spettralmente illuminata e i pastori più grandi di tutte le altre statuine, come anche la grotta e S.Giuseppe e la Madonna e Gesù e l’asino e il bue

Ricordo, pensai, che dovevano essere proprio stanchi, per mettere le cose a rovescio e la grotta che non.si vedeva subito, ma solo alla fine, se giravi la testa, e la sabbia non nel deserto lontano, ma proprio davanti alla grotta.

Poi mi accorsi che qualcuno aveva loro guidato la mano, perché mai un presepe mi aveva parlato a quel modo.

Dio lo si incontra nel deserto delle nostre povertà, delle nostre paure, delle nostre stanchezze, dei nostri vuoti affettivi, delle nostre insicurezze, della nostra vita nomade alla ricerca di una stabile dimora.

Ed è proprio vero! I pastori sono più grandi perché sono i più piccoli, e la grotta la vedono solo quelli che la cercano.




Questo e non solo ho imparato sui simboli del Natale, ma solo dopo che ho accettato di aprire l’involucro del dono che nel battesimo mi fu fatto 59 anni fa.

Quando ai ragazzi ogni anno riproponevo il tema:”Il Natale festa del consumismo o di cos’altro?", cercavo da loro il senso di una festa che era diventata solo una conta di morti.

L’albero aveva smesso di brillare nella mia casa, non c’era nessuno per cui valesse la pena di farlo, né nessuno con cui condividere la fatica e la gioia di prepararlo.

Il Natale sembrava sempre più una festa di campane a martello, con i sordi rintocchi che risuonavano nelle stanze sempre più mute e deserte del cuore.

La festa della resa dei conti, perché sempre meno erano quelli che si sedevano intorno al tavolo, la vigilia e il giorno dopo e tutte le feste.

Sempre ogni anno la verifica dei vivi e dei morti, dei sani e dei malati.

Sempre qualcuno mancava all’appello e non c’era chi venisse ad occuparne il posto.

L’ultimo, mio fratello, che se n’è andato a luglio del ’99, dopo aver festeggiato a casa mia per la prima volta il Natale e tutte le feste, con tutti, proprio tutti noi della famiglia.

Ma io, mentre facevamo le foto, pensavo che erano le ultime, consapevole che era un malato perso e che non c’era nessuna speranza che vivesse fino all’appello successivo.

Pensieri di morte che hanno cominciato a germogliare sotto l’albero, che dimenticai non solo d’innaffiare, ma anche di avere e che infestarono tutto il terreno fino a rischiare che rimanesse soffocato per sempre, il giorno che raggiunsi la meta abbagliante dei sogni di un adulta che non era mai stata bambina.




La sicurezza economica, la casa, un marito, un figlio, queste le luci del mio presepe di allora

Il matrimonio fu la linea di demarcazione tra la gioia e il dolore, tra la salute e la malattia, un matrimonio celebrato in chiesa senza lo Sposo, colui che avrebbe potuto curare tante piaghe, sanare tante ferite, consolare tante delusioni, fornire tanto amore da poterne donare a tutti quanti quelli incontrati sul nostro cammino.

Allora non sapevo che ci si sposava in tre, che lo Sposo era Gesù e che la coppia, creata ad immagine e somiglianza di Dio era destinata a diventare una cosa sola con Lui, icona vivente della Trinità di Dio.

Ero lungi dal pensare che tra tutti i doni pervenuti il giorno del matrimonio, il più importante non lo abbiamo neanche scartato, non conoscendo il mittente e non sentendone allora il bisogno.

La promessa di essere fedeli per sempre l’uno all’altro, fatta davanti al sacerdote, non ci è sembrata tanto gravosa da mantenere, perché fino ad allora non avevamo conosciuto da vicino né il dolore, né la malattia.


Dal "Gioco dell'oca"

1973

Dolori sempre più forti alla schiena mi convinsero a consultare il mio medico di base, che mi indirizzò prima dal ginecologo, poi dal reumatologo e alla fine dall’otorino per la spremitura delle tonsille.

Approdai infine nello studio di un ortopedico, che mi prescrisse delle lastre e iniezioni endovene. Feci le prime, ma non le seconde, con-vinta che bastasse conoscere la causa del disturbo per guarire.

Del resto non avevo imparato a risolvere da sola i miei problemi?

Ma nulla cambiò, e le mie incrollabili certezze cominciarono a vacil-lare.

A malincuore dovetti prendere atto che avevo bisogno d’aiuto.

Quello fu l’inizio di un lungo e faticoso vagabondare da uno specialista all’altro, alla ricerca di una soluzione ad un’incredibile escalation di disturbi, apparentemente scollegati fra loro.

La malattia sempre più divenne il mio scomodo compagno di viaggio, l’avversario con cui giorno e notte dovevo combattere per non soccombere.

E quando credevo di averla debellata, si ripresentava più forte e arrogante di prima.

Non posso dire che tutti quelli a cui mi sono rivolta non abbiano preso in seria considerazione il mio caso; anzi, ci fu anche chi non volle essere pagato, perché occuparsi di me era diventato un mezzo per mettere alla prova le proprie conoscenze e farsene vanto in caso di successo.

1974

Il primo che ci provò fu un anziano medico, responsabile di un gabinetto di terapia fisica.

Fu lui a suggerirmi la necessità di farmi vedere da uno specialista tedesco che faceva capo al suo studio di tanto in tanto. Il luminare mi disse, dopo una visita frettolosa e sommaria, che la mia medicina era: vita all’aria aperta e nuoto. Perché non approfittare del fatto che la bella stagione era alle porte e che la città ove abitavo aveva un mare meraviglioso?

Con scrupolo eseguii alla lettera la prescrizione medica, ma mi bloc-cai mentre nell’acqua provavo ciò che fino ad allora non avevo mai sognato di fare. A nulla valsero il riposo e antinfiammatori sempre più potenti.

1975

La tappa successiva fu Bologna, dove un illustre professore fece finalmente una diagnosi: "ernia del disco tra la quarta e la quinta vertebra lombare”.

Comunque mi tranquillizzò, dicendo che al 50% sarei guarita, se per due mesi avessi portato un busto ortopedico.

Non era neanche trascorso il periodo previsto per la guarigione che, mentre mi accingevo a pulire un angolo nascosto del bagno, sfuggito alla donna delle pulizie, avverto una sensazione strana come di lacerazione sottile ma non dolorosa.

Faccio per alzarmi, ma é tutto inutile; il blocco é totale.

Ho imparato a riconoscere quel segnale e ancor più ad averne paura.

La paura

Non avevo saputo cosa fosse la paura, nonostante quella incomprensibile fobia di mia madre a star sola aveva condizionato i nostri anni migliori.

Io me ne ridevo e, per dimostrarle quanto fossero infondate le sue fisime, spavalda, scendevo nell’umida e buia cantina a prendere la legna, o mi avventuravo di notte per la strada, ancora imbrecciata, a fare piccole commissioni, a cui i miei fratelli si sottraevano volentieri.




Fino a quel momento non avevo mai avuto il minimo dubbio che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, convinta che “volere è potere”.

Ma, per quanto volessi, quel maledetto dolore da carico non accennava a scomparire. Stavo bene solo a letto, distesa; e guai provare a sollevarmi un po' con qualche cuscino! Ma la soluzione era a portata di mano: l’operazione, che avrebbe definitivamente risolto il problema. Almeno così credevo.

Prenotai l'intervento in una clinica privata di Bologna e, di lì a due mesi, mi ritrovai sul lettino della sala operatoria con molta minore baldanza della prima volta, ma sicura che quello sarebbe stato l'ultimo atto del mio calvario.
Non ero preparata ad un risveglio così doloroso, ma lo sopportai con la solita grinta senza emettere un lamento. Ad una fastidiosissima infezione vaginale, subentrata quasi subito, non detti importanza.

Non era la prima e non sarebbe stata l'ultima.

Mi meravigliai però del fatto che non era previsto ammalarsi di due cose contemporaneamente. Quello era un reparto d'ortopedia, non di ginecologia!

Così dovetti per l'ennesima volta ricorrere al "fai da te", con risultati apprezzabili al momento.

Quando mi dimisero, dopo una settimana, avevo dolori più forti di quando ero entrata, ma la mia smania di uscire ben si conciliava con le esigenze del primario, che doveva andare in vacanza, e con quelle della clinica che, in convenzione, prevedeva soli sette giorni per un'ernia discale.

Mi tolsero i punti senza che la ferita fosse richiusa del tutto.

Chi poteva immaginare quello che dopo sarebbe successo?
Tornata a casa, ogni tentativo di mettermi in piedi si rivelò inutile.

Il dolore era quello di prima. Mi dissi che non dovevo avere fretta e che la radarterapia, prescrittami ai 30 giorni, mi avrebbe sicuramente rimessa a nuovo.

Con il batticuore mi recai, allo scadere del termine, nel gabinetto di terapia fisica ormai divenutomi familiare. L'anziano medico, sempre pronto a dare consigli, rise di cuore a quella ingenua richiesta.

Visto che mi si consigliava anche l'elioterapia estiva, perché non darmi il sole tutto insieme e subito? Così mi fece fare "i forni", senza sapere che avevo un'infezione in atto e che il fuoco che covava sotto la paglia non aspettava altro per divampare.

Il 1975 volgeva al termine.

1976

La notte di Capodanno fui colta da dolori lancinanti alla schiena, co-me mai ne avevo sentiti.

Mi trovavo da mia madre, per festeggiare, con i parenti, il complean-no di mio padre.

All'inizio feci finta di niente, cercando di nascondere quell'ennesimo malessere che rischiava di rovinare la festa.

I miei cari si erano convinti che il peggio era passato e io avevo fatto di tutto per non deluderli. Mio marito mi aveva persino comperato una pelliccia per festeggiare la fine dell'incubo.

Come potevo dire che stavo male? Ricordo la smorfia di disappunto che fece quando gli chiesi di accompagnarmi a casa. In seguito mi confessò che aveva pensato ad un capriccio.

Il 1976 si presentava con gli auspici più foschi.


Due io che non riuscivano a diventare un noi ha fatto sì che “Il gioco dell’oca”, la storia che sembrava non avere mai fine, la beffa di un destino crudele che mi nascondeva il traguardo, proprio quando ero lì per conquistarlo,.la vivessi da sola, in una solitudine sempre più disumana ed assurda.

Quando ci sposammo, ci preoccupammo di ringraziare tutti quelli che ci avevano fatto un regalo, ma non facemmo caso a quello che Gesù, pur non essendo stato invitato, ci aveva lasciato, in attesa discreta che ce ne accorgessimo.

Bisognava proprio essere ciechi per non vederlo, perché che ce l’aveva messo davanti agli occhi: il compagno, la compagna che lui aveva pensato e amato per primo.

Si trattava proprio di un dono speciale, come quella tavola imbandita sopra l’altare, dove lui si offriva come cibo e bevanda, perché il banchetto, la festa durasse per sempre..

Neanche quando nacque nostro figlio ci sfiorò l’idea che c’era Qualcuno che ce lo aveva mandato.

Ma la grazia racchiusa nel sacramento, il dono per eccellenza, quello che rende capaci di amare per sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, continuò ad agire in sordina, fino a quando i nostri occhi si sono aperti, aperte le nostre orecchie e gli abbiamo permesso di entrare e di operare nella nostra vita di coppia.

Oggi, rileggendo quelle pagine, non nascondo un certo malessere che nasce dal constatare quanto fosse grande il mio io e quanto poco contassero gli altri in un universo creato su misura per me.

La malattia fu l’unico filo che tenne attaccati, per anni, i pezzi della mia storia, nella quale sognavo un mondo perfetto di gente perfetta.

Ma dall’album delle foto sbiadite pian piano sta prendendo colore quella che ritrae la mia famiglia intorno al tavolo per la foto di rito, il giorno del compleanno di mio padre, il 31 dicembre, ripetuta negli anni, che mi dà il filo che non si spezza per proseguire il racconto.

In quella foto vedo i volti che non si vedono di quei nonni, di quelle nonne e che contribuirono a trasmettere un valore, quello della famiglia, che è stato il faro che ci ha guidato e continua a guidarci.

La domenica dopo Natale, la Chiesa celebra la festa della sacra Famiglia, ricordando nel Vangelo, l’episodio dello smarrimento e successivo ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio.

Le parole di Maria ci portano a riflettere sul noi degli sposi cristiani:”Figlio perché ci hai fatto così? Tuo padre e io angosciati ti cercavamo”, ma anche e soprattutto sull’atteggiamento di amore, di rispetto, di stima e di reciproca fiducia all’interno di questa famiglia speciale che ha messo al primo posto Dio e la sua volontà.

Chiediamo a Dio nostro padre, che nella santa Famiglia ci ha dato un vero modello di vita, che nelle nostre famiglie fioriscano le stesse virtù e lo stesso amore.

Con questo augurio vi lascio

31 dicembre 2003


foto©http://antomilella.files.wordpress.com/2006/09/28.jpg


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