martedì 18 aprile 2006

Il mio albero

 Ora che il mondo lo vedo girare, perché ho imparato a fermarmi, che i colori li ho stampati nel cuore, quelli dei sentimenti vissuti e accettati, mi chiedo che ne è stato del “gioco dell’oca”, dei dadi che per anni ho continuato a lanciare, sperando, una volta arrivata alla meta, di vincere quell’assurda partita portata avanti da sola.  

L’infanzia tradita, l’arrangiati portato all’estremo, la malattia a ricordarmi che non bastavo a me stessa, la normalità cercata nello stare seduta, quel farmi piacere le cose anche quando le avrei vomitate, quel non voler arrendersi all’evidenza di un handicap, insopportabile per chi la vita la viveva correndo, quel non voler ammettere che non c’era speranza, perché tutte le cose hanno un termine, dove sono andati a finire? 

Quanti anni sono passati da quest’oggi vissuto nell’ascolto della voce che viene da dentro, di quella che mi torna da ciò che mi si pone dinanzi, che si unisce alla sinfonia del creato per portarmi prostrata a pregare e lodare il Signore per tutte le cose che sono, per quelle che riesco a capire, per quelle che non capisco, perché è dolce l’incontro con Lui quando viene improvviso a spiegarmele. 

Con lo sguardo perso nel tempo, affondandovi forte le dita, cerco l’albero da cui sono uscita, per trovarvi scritto nei cerchi ciò che unisce i pezzi della mia storia. 

Percorrendo la valle della memoria, lo vedo, nella terra, stendere le sue radici, insinuarsi nei suoi tanti e misteriosi meandri, fondersi con le sue viscere vive.
Lo guardo, mentre sbuca tra i sassi, attraverso le crepe del suolo, mentre cerca di sollevarsi a fatica verso il cielo, per catturarne la luce..

Il mio albero è questa mia vita, che ieri mi appariva contorta, una pianta da sradicare perché, a guardarla un po’ più da vicino, non era bella per niente: la corteccia piena di tagli, di ferite che non si rimarginano, il tronco storto da un lato, mutilato nelle sue braccia, le foglie in parte ingiallite, malate, le migliori cadute ai suoi piedi, quelle che avrebbe voluto riprendersi, se ne fosse stato capace..

Il mio albero voleva vivere libero, senza dar conto a nessuno. Lo spazio non lo voleva dividere, perché ne aveva bisogno per tenersi stretti quei rami belli e vitali che, pur togliendo forza al suo fusto, era un peccato tagliare.

Ma lo sforzo diventava sempre più grande per sostenere quell’inutile peso. 

Il mio albero ha imparato a morire, ad amare le sue cicatrici quelle che segnano il tempo lungo faticoso e sofferto della sua crescita, ha imparato ad accogliere tra i suoi rami, divenuti robusti, gli uccelli che al mattino lo svegliano, i piccoli insetti che lo percorrono attingendo la linfa da lui. 

Il mio albero oggi lo guardo e ringrazio quella Croce non a caso incontrata dove né fiori né foglie abbelliscono il legno, ma Colui che mi ha riportato alla vita.


Tratto da "Il gioco dell'oca" ed.Tracce


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