Carina non ha più bisogno che
qualcuno le metta a posto il computer per entrare in contatto con
un mondo che sperava meno crudele di quello in cui era da sempre
vissuta.
Alle due il suo cane si è messo d’improvviso a guaire, disperatamente, ma Carina non lo sentiva.
Stava morendo, sola, lontana,
abbandonata in un letto che aveva provvisoriamente accolto il morbo di
Cuscin o un tumore al fegato in fase terminale o tutto il resto, tanto
non ci si poteva sbagliare perché non c’era niente che non avesse
provato.
Quando l’avevo incontrata, un mese
fa, i suoi occhi mi vennero incontro, due fanali aperti alla vita che
sempre più le sfuggiva di mano, due pozzi profondi dove non riusciva ad
annegare la sua prepotente energia.
Seduta sulla sedia a rotelle, mi
accolse con un sorriso, il viso sfiorito anzitempo, i suoi anni caricati
sopra le spalle come fossero tanti di più, contati su una pelle cadente
e disfatta, su muscoli inconsistenti, su brandelli di carne attaccati
ad un corpo in rovina.
Stava dando lo straccio in cucina
come fosse cosa normale, lo sguardo stupito di bimba che vuol fare le
cose dei grandi e si meraviglia che i grandi non la lascino fare.
Sulla testa una vistosa parrucca,
troppo bionda, troppo finta per non sembrare che stava a coprire un
dramma, uno dei tanti di un corpo scampato al naufragio di tutte le navi
del mondo..
Come il dito che le mancava, servito ad un medico per farci uno studio, visto che aveva un osteomielite.
Dei medici aveva il terrore, come
anche degli ospedali, e si era ridotta a farsi tutto da sola per paura
che fosse, ancora una volta, usata per fare da cavia agli esperimenti di
chi voleva indagare su quel raro esempio di morbo di Cuscin.
Lo avevano fatto già dodici volte,
senza mai dirle niente, spiegarle, chiederle il consenso ad esplorare
quel misterioso universo che era il suo involucro che disorientava per
come facesse a stare attaccato.
Il cervello, però, non aveva mai
smesso di funzionare, né mai aveva perso di lucidità, nonostante gli
attacchi ischemici la incalzassero sempre più da vicino..
Le altre trenta operazioni gliel’avevano detto cosa le avrebbero fatto. Ma cos’era cambiato?
Il morbo di Cuscin non perdona, è
malattia devastante, tanto che a tredici anni la chiuse in manicomio un
padre padrone che di lei non sapeva che farsene.
Ne uscì dopo un anno o due, non
ricordo, perché, come si può rinchiudere dentro dei muri la voglia
prepotente di vivere che doveva ancora esplodere tutta?
Carina la vita la voleva afferrare,
godere, convinta che ne valesse la pena, senza mai piangersi addosso,
neanche quando le fecero quella trasfusione fatale che le regalò
l’epatite e tutto quanto consegue.
Ma era necessaria dopo
quell’intervento all’intestino per ridurglielo, visto che aveva
cominciato ad ingrassare in modo spropositato, senza accennare a
fermarsi.
Tutta colpa di quell’ipofisi impazzita che si accanirono più volte a rimuovere, da quel cranio che non si voleva arrendere.
Carina la vita la voleva gustare, la
voleva prendere e accarezzare con le sue mani che diventavano sempre
più magre, sempre più lunghe, sempre più storte e deformi..
Così si prese pure il gusto di
vedere un sogno trasformarsi in realtà, perché lei che non poteva avere
bambini, andava ai giardini a vederli, per fotografarli con gli occhi,
sperando che l’immagine impressa scendesse dentro la pancia.
Nella pancia ci scese quell’angelo
che doveva cambiarle la vita, ma fu solo l’illusione di un attimo perché
l’uomo, il padre, il marito ben presto la lasciò sola con quel bimbo
fotografato ai giardini per un‘altra che sembrava migliore di lei.
La vita se la riprese con quel
figlio per cui niente si risparmiò per poterlo vedere felice, ma quando
rivolle accanto il marito che l’aveva tradita, per godere di una gioia
più piena, quel figlio se lo legò al dito e Carina lo perse per sempre.
Seduta sulla sedia a rotelle, tutto
il tempo che stemmo a parlare sembrò sempre padrona di se, la voce
chiara e spedita, il tono franco e sicuro, gli occhi fissi nei miei
tranne quando, parlando del figlio, il suono s’incrinò appena e una
lacrima scivolò via prima ancora che potesse asciugarla.
Carina non ha più bisogno che
qualcuno le dimostri che il mondo non è poi così crudele come aveva più
volte sperimentato, non gli serve più gente che non la compianga, non
dando a vedere che ne aveva pietà.
La pietà se la voleva cacciare di
dosso, la voleva rimandare al mittente ogni volta che qualcuno si
fermava a guardarla seduta sulla sedia a rotelle con il corpo straziato
dalle troppe ed evidenti ferite.
Lei gli occhi e le gambe le aveva. Di cosa poteva avere bisogno?
Così quel giorno, che mi sembra
perso nel tempo, mi parlava del suo disappunto per il mondo che non
riusciva a capirla: troppo forte o troppo debole, mai per come veramente
lei era, come in fondo lei si sentiva.
Mi aveva telefonato, tre mesi prima,
perché, dopo aver letto il mio libro, voleva parlarmi, certa che
sicuramente non avrei fatto fatica a vedere ciò che agli altri si
nascondeva.
Non avrei mai pensato che con me
potesse avere qualcosa in comune, visto che di violenze sul corpo e
sull’anima ne aveva subite a bizzeffe ed io ero una pulce con la mia
storia scritta in un libro come fosse straordinaria e diversa da tutte
quelle che ero abituata a sentire.
Le sue parole mi confermarono che la
condivisione non è fatta di numeri, perché la sofferenza unisce
comunque, qualunque sia il conto di quello che ti è capitato.
Oggi, ferma accanto alla cassa, nella stanza dell’obitorio, la guardavo ma non la trovavo..
Stesa immobile, vestita da uomo, da
uomini che non l’hanno amata o non ne sono stati capaci, la lunga
parrucca divisa a metà, con la riga in mezzo alla testa, i finti capelli
di paglia lunghi e sciolti fino alla vita, la corona arrotolata alle
dita, il Cristo troppo dorato che pendeva dai grani di plastica. Tutto
finto appariva ai miei occhi.
.
Lei non stava in quell’assurdo
pupazzo, immobile e travestito, sotto il velo con cui sono soliti i vivi
coprire i loro defunti, lei era lì viva, presente, più grande di noi,
ci circondava, ci abbracciava, ci parlava, con gli occhi, con il cuore
finalmente placato, perché stava vicino a suo figlio.
Seduto lì accanto, lui, il bimbo
rapito ad un sogno, con la testa piegata in avanti, con il corpo
ripiegato in se stesso, in silenzio stava a sentire ciò che lei gli
sussurrava all’orecchio, gli occhi vuoti persi nel pianto, il cuore
gonfio di commozione nel giardino dove lei l’aveva rapito.
Con la mano stretta alla mano lo portava a cercare tra i fiori i fili persi e spezzati del suo amore scansato e dimenticato.
Carina non ha più bisogno di chi le
aggiusti il computer per mettersi in contatto via internet con gente che
non conosce, non ha più bisogno di chi la capisca, di chi le faccia i
massaggi o la curi.
Oggi una stella ha cominciato a brillare, a mandare messaggi dal cielo dove è andata ad abitare.
Ora che la luce la prende
direttamente alla fonte, riesce a parlare più forte e con più
convinzione di quanto sia importante aprire il cuore ai sentimenti
nascosti, di quanto possa l’amore.
1 commento:
Carina: una storia che fa riflettere.
Ti ho sentito al telefono. Mi spiace che tu non stia bene. In questi giorni di novena in preparazione al Natale ti ricorderò.
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